Voci minori

I Mandorli

Cap III
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Eppure, nonostante il frustrante senso d’impotenza di quella mattina del  millenovecentoquarantanove, quattro anni dopo era ancora primavera. Mariano scrutava  l’orizzonte, in mano i resti della sigaretta già trasformata in cenere e in fumo; l’Etna, maestosa  e fatale come un grande dio primitivo, riluceva la sua punta imbiancata dalla neve, che  all’alba si trasformava lentamente e chissà per quale strano artifizio in una distesa d’oro.  

Le pareti della piccola casetta in muratura da molte stagioni avevano perso l’abitudine di  attutire i pensieri, ammorbidire il tono della voce, far da cassa da risonanza ai mille suoni e  alle mille forme della vita nascosta tra il cielo e la terra; negli ultimi quattro anni i fruscii del 

velluto e del lino e delle barbe arruffate e dei capelli ispidi avevano svegliato quel fazzoletto di  terra dal suo torpore. La casetta di Mariano aveva smesso di ascoltare: aveva preso a parlare. 

E le parole, che le servette di Don Paolo e Donna Stella ascoltavano all’imbrunire, suonarono  sempre più rumorose col passar del tempo, sempre meno monocorde – coll’avanzar di una  forza segreta e spaventosa, che Mariano non aveva mai percepito prima d’allora: la forza  dell’affinità spirituale e umana.  

A chi chiedeva come stesse andando quella strana convivenza, Mariano rispondeva: non c’è  male. I contadini son da sempre abituati a esprimere le ragioni del proprio essere con poche  parole; chi è abituato a curar la vita delle piante e degli animali sa che questa c’è senza che si  dichiari mai: se una pianta soffre, non sentiremo i suoi lamenti di sofferenza, né ascolteremo  mai i suoi sussulti di gioia per la nascita dei suoi frutti. Allo stesso modo Mariano non sentì  mai la necessità di trovar le parole e i pensieri che potessero render palese la propria  predisposizione di spirito e la composizione delle proprie emozioni. 

Perciò, a chi gli chiedeva come stesse andando quella strana convivenza con gli operai  romagnoli, rispondeva sempre: nun c’è mali.  

Mariano non lo sapeva ancora, ma quelle poche parole erano stranamente sufficienti a  soddisfare le curiosità di chi ogni sera poteva scorgere le ombre di un lume poggiato sul  grande tavolo di legno pesante: la casa dal tetto di paglia parlava al suo posto, lasciando  trasportare agli insetti, all’erbetta e alle margherite la gentilezza delle conversazioni, le risa  affettuose, i racconti di cui ogni uomo è unico custode.  

Come avvenne quell’incontro di anime? Chi servì quel banchetto del desinare dolce e fresco, come un frutto estivo? Sarebbe semplice far di questa storia un’ode all’amicizia! Ma le cose  dell’uomo rifuggono sempre la banalità dello scrittore; Mariano visse in quegli anni il mistero  profondo e imperscrutabile delle relazioni umane: come dei pianeti che casualmente entrano  ognuno nelle traiettorie ellittiche dell’altro, uno strano ometto siciliano bruciato dal sole e  cinque operai comunisti della Romagna intersecarono per qualche tempo le loro linee celesti,  unendosi in una danza senza musica, nell’armonia silenziosa di premure reciproche come il  caffè caldo che Mariano ogni mattina metteva sul fuoco per tutti gli inquilini della sua casetta.