Catania

Detenuto senza reato: la storia di Douglas, prigioniero nel CPR di Trapani. Poi il riscatto nel lavoro

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«La notte non si dorme. C’è chi sbatte le porte, chi grida. Alcuni sniffano pillole per calmarsi. È molto peggio di un carcere, è meglio vivere per strada piuttosto che stare lì». Douglas, ventinovenne originario del Gambia, ricorda così i giorni trascorsi nel CPR (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Milo, a Trapani. Era il 2023, a quel tempo lavorava nelle campagne di Palermo con la sua cooperativa. La sua colpa? Non aver rinnovato in tempo il permesso di soggiorno.

Dalla Libia all’Etna
 «Sono arrivato in Italia nel 2014, a diciotto anni. Dopo essere fuggito dalle prigioni libiche, ho raggiunto Siracusa in barca. Un viaggio difficilissimo», racconta mentre sorseggia un caffè per le stradine di San Berillo, nel cuore di Catania, dove lo conoscono tutti: «In Gambia bevevo solo quello americano, ma ormai amo l’espresso».
 Dopo un periodo al CARA di Mineo ha iniziato a lavorare nei campi agricoli: «Ho vissuto a Marsala e anche in Germania per più di un anno, ma poi sono tornato a Catania». Nel 2020, in piena pandemia, ha fondato insieme ad altri ragazzi una cooperativa agricola per sottrarsi allo sfruttamento: «Si chiama Dokulaa, che significa lavoratori in lingua Mandinka. L’abbiamo creata per aiutare noi stessi, per avere un contratto fisso e una paga dignitosa, che ci permettono di ottenere anche il permesso di soggiorno».

Dentro il CPR di Milo         
 «Quando mi hanno fermato eravamo quattro italiani e tre stranieri. Stavamo andando a lavorare nelle campagne di Palermo. Io avevo dimenticato di rinnovare il permesso di soggiorno. I poliziotti mi hanno portato via. Poi ho capito che mi stavano portando al CPR di Trapani».
 Il CPR di Milo è un edificio isolato, «lontano da tutti» dice Douglas. Una delle nove strutture attive in Italia dove vengono trattenuti gli stranieri che non hanno commesso alcun reato, ma che si trovano irregolarmente sul territorio italiano: «Ho trovato una situazione bruttissima. Quando entri ti tolgono tutto: cellulare, bracciali, collane, persino le creme per il viso. Dentro è rumore continuo. La gente urla, sbatte le porte, prende pillole per dormire». Spiega che i medici prescrivono una «terapia», e che alcuni «perdono la testa per davvero».
 «Dormivamo in dieci nella stessa stanza. C’era chi gridava, chi non parlava più. Ho visto gente con problemi mentali abbandonata lì. Un uomo stava sempre seduto, non si muoveva. Nessuno li aiutava, quelle persone non dovevano stare lì». «Il cibo era terribile. Il primo giorno ho bevuto il latte e sono stato male. Ogni mattina solo biscotti e latte, a pranzo riso o pasta in bianco, ma non so cosa ci mettevano. Avevo sempre mal di stomaco», aggiunge.
 «È peggio di un carcere. Nel CPR sei in arresto senza aver commesso un reato e nessuno ti dice quando potrai uscire». Le persone nei CPR si trovano infatti nella condizione di detenzione amministrativa, introdotta nell’ordinamento giuridico italiano nel 1998: una detenzione che avviene senza che sia stato commesso un reato penale. «C’era gente detenuta da mesi e mesi. Ogni notte qualcuno provava a scappare. Io cercavo di resistere», racconta.
 Dopo 31 giorni di attesa e paura, la svolta. «Grazie a un avvocato di Palermo, alla cooperativa e a tanti conoscenti che hanno scritto lettere sul mio lavoro, sono riuscito a uscire». «Quando mi hanno detto che potevo uscire non ci credevo. Pensavo che sarei rimasto lì per mesi, rischiando il rimpatrio».

Lavoro, casa e speranze 
 Oggi Douglas vive a Catania e lavora stabilmente nella cooperativa Dokulaa: «Raccogliamo agrumi e nocciole. Prima mi pagavano 20 euro al giorno per dieci ore. Ora abbiamo contratti regolari e paghe giuste».
 «La cooperativa ci ha salvati. Adesso ho la residenza, un contratto, e spero di poter ottenere presto la cittadinanza. I CPR non sono posti per persone. Io sono stato fortunato. Se non hai una testa forte, esci pazzo. È meglio vivere per strada e mangiare un biscotto piuttosto che stare là».