Alla legge serve l’approvazione di Roma. Chiari i problemi di applicabilità della norma ma la proposta è un segnale forte per la tutela dell’infanzia. La regolamentazione del virtuale per i minori tra le sfide più urgenti del nostro tempo.
Il 29 gennaio l’Assemblea Regionale Siciliana ha approvato una legge che vieta l’utilizzo di telefoni cellulari e dispositivi digitali per i bambini sotto i cinque anni. Forti limitazioni per le età successive. Inoltre, smartphone vietati nelle ora didattiche. Previste campagne di sensibilizzazione e informazione rivolte a genitori e insegnanti sui rischi di un uso eccessivo dei dispositivi digitali.
La legge, che ha incontrato l’approvazione unanime dell’intero arco politico, richiede il via libera di Roma per diventare operativa.
Rischi per l’infanzia. Il tema si è imposto nel dibattito pubblico di molti paesi: ad allarmare il bullismo in rete, l’esposizione precoce alla pornografia, la diffusione di disinformazione e notizie false ma soprattutto l’aumento dei disturbi mentali (ansia, depressione, disturbi alimentari, suicidi) tra i giovani cresciuti passando ore davanti lo schermo.
A riguardo si è espressa l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le cui linee guida sono chiare: per i bambini da zero a due anni vale il divieto assoluto di essere piazzati davanti a uno schermo, dai due ai quattro anni non più di un’ora al giorno. Dai 6 ai 10 anni soglia critica di 2 ore. L’Oms spiega che il tempo trascorso passivamente davanti allo schermo può danneggiare i bambini e indica correlazioni con sovrappeso, problemi di sviluppo motorio e cognitivo e di salute psico-sociale. Inoltre l’eccessiva esposizione ai dispositivi rischia di ledere la capacità di esprimere emozioni e comunicare efficacemente.
Irrealizzabilità? A chi sottopone questa materia a criteri giuridici appaiono evidenti i problemi di applicabilità della norma: i controlli delle trasgressioni risultano pressoché impossibili. Di ciò si è mostrato consapevole Carlo Gilistro, pediatra e deputato pentastellato, primo firmatario della proposta: “è un divieto difficile da far rispettare, ma questa legge vuole essere soprattutto un disperato grido di allarme che risuoni forte nelle orecchie dei genitori”.
Se a tutti è chiaro che non basta una legge per risolvere un problema profondamente radicato nei costumi, se è chiaro che sarebbe inutile pensare unicamente a dei divieti, che sono essenziali programmi di educazione e sensibilizzazione, la legge rimane un segnale forte per la tutela dell’infanzia. Ci si auspica che sia l’avvio di un processo, in prima istanza culturale, che porti a una più avvertita consapevolezza educativa: la coscienza condivisa che l’infanzia, il periodo più vulnerabile dello sviluppo cerebrale, deve trascorrere lontana dal flusso continuo dei social, da contenuti scelti da algoritmi con l’intento (a noi sembra chiaro: criminale) di creare dipendenza.
Educazione unica via? Si obietta che un divieto simile rimane inutile, la diffusione della tecnologia è inevitabile, tanto vale educare genitori e ragazzi a un uso consapevole.
A nostro avviso occorre ragionare nei termini di un problema di salute pubblica. Viene in mente l’analogia con il tabacco: sappiamo che una diminuzione dei fumatori richiede soprattutto un’opera efficace di informazione, la comune convinzione della pericolosità del tabacco; ma non per questo riteniamo superflue misure legislative, tantomeno quelle rivolte ai minori.
Il punto è: sensibilizzazione e istruzione sono necessari ma non sufficienti: per un’azione incisiva servono regole. L’urgenza del problema richiede che l’energia dei nostri interventi sia proporzionata all’enorme forza economica di aziende come Meta o TikTok, alla capacità di queste tecnologie di impadronirsi dell’attenzione dell’utente. Misure come il divieto di utilizzo dei cellulari a scuola ci sembrano altrettanto ragionevoli quanto il divieto di fumo in luoghi pubblici.
“Il problema è degli adulti…” Giustamente si dice che il problema è radicato tra gli adulti. “Se non cambiano prima le abitudini tra i genitori è impensabile regolamentare quelle dei figli”.
La premessa è senz’altro vera: servono genitori più consapevoli. Tuttavia non è sufficiente per squalificare tentativi di protezione dell’infanzia: se l’eccesso di alcol è nocivo agli adulti, è forse giusto non proibire il consumo ai ragazzi?
Un intollerabile limitazione della libertà? Si potrebbe criticare non solo la realizzabilità della proposta, ma la stessa legittimità. Una legge del genere può apparire come a. un’ingerenza dello Stato nell’educazione dei figli, che paternalisticamente decide cos’è giusto; b. proibizione di pratiche normali, illegittima in quanto queste non costituiscono un rischio serio per la sicurezza pubblica.
La legge in questione, tuttavia, non proibisce a nessuno, compiuta una certa età, di mettersi davanti allo schermo, così come a 18 anni si può fumare e bere alcol. Si tratta di proteggere l’infanzia. Paternalismo? L’accusa di illegittimità deriva dall’idea che un partito terzo non può arrogarsi la pretesa di conoscere gli interessi delle persone meglio delle persone stesse. Ma non accusiamo forse i fumatori di non conoscere i propri interessi? Si tratta di prendere atto che, quanto all’infanzia e all’educazione, non vale l’identificazione integrale di desideri e interessi: non è nell’interesse del bambino stare per ore su tiktok, sebbene possa desiderarlo. Non è nell’interesse collettivo che un’intera generazione cresca con una salute mentale compromessa, incapace di leggere un testo più lungo di un tweet e dipendente da uno schermo sempre in tasca.