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I Mandorli

I Mandorli è un racconto che parla di ciò che è vivo e che della vita affronta quotidianamente le sue mille possibilità e i suoi mille crocevia. È il racconto di un ragazzo nato cent’anni fa in un piccolo paesino siciliano, che pur nella convinzione di non poter scegliere di cosa farne della propria esistenza in fondo compie ogni giorno una scelta che da forma al suo scorrere. I Mandorli è un racconto in otto capitoli. Questo numero ne ospita i primi due.

Il fumo della sigaretta fluiva denso nei suoi polmoni. Nel buio oscuro che precede la creazione del mondo che indugia ancora nell’ombra, l’unica piccola luce della verde campagna illumina un lembo di carne frastagliata, carne abituata alla calura del sole d’ agosto e al soffio del vento gelido di gennaio. Due grandi crateri fremevano su quell’isola di carne, lambiti dal rosso lume del tabacco incandescente, preparando il lungo tremito del respiro: e due lunghe colonne di fumo grigio si liberarono, vagarono veloci nell’ aria umida della notte e si dipesero, nel battito di un piccolo pendolo appeso alla parete.

Il fumo della sigaretta fluiva denso nei polmoni di Mariano, che all’ alba di un giorno di primavera fumava la sua Nazionale senza filtro, la prima delle due sigarette ch’era solito fumare ogni dì. La campagna si svegliava rapida e silenziosa, dopo aver trattenuto il fiato tutta la notte per lasciar dormire i suoi figli, pronta a dichiarar le sue odi alla vita facendo frinire i grilli, latrare i cani, muggire le mucche, cantare i galli.

Mariano non provava più alcuna sorpresa alla vista di quel risveglio, e forse non l’ aveva mai provata: si sentiva parte integrante del respiro rumoroso della terra, così simile al suo fumare sbuffante. E poi, in fondo, cosa c’è da sorprendersi? La campagna esce sempre dall’ oscurità, ad ogni risveglio; il gallo canta ogni mattino, fin quando non sarà sgozzato, e poi un altro gallo canterà al suo posto, totalmente inconsapevole della vita prima di lui, totalmente indifferente a quella successiva; Mariano fuma sempre, da quando aveva quindici anni, la sua sigaretta senza filtro, al mattino. Non aveva bisogno, lui, di sorprendersi come chi trova una rispostainaspettata alle proprie domande; era sempre vissuto in solitudine, circondato dai suoi affetti ma a loro sempre estraneo nell’intimo, cullato dall’ eterna, dolce gondola delle stagioni dell’ esistenza. Sapeva di non dover farsi domande: la natura è un oracolo dalle risposte immediate.

Quel mattino era un mattino come tanti, per Mariano che con difficoltà ricordava e contava il tempo. Eppure il tabacco era più amaro, più amaro il vino che mollemente inzuppava il suo biscotto al lievito, soffice e pur stopposo. Un imbuto, molto stretto, gli avevano piazzato gli spiriti della piana, giù per la gola: e tutto quel che non finiva giù, sembrava voler tornare fuori.

Spesso consideriamo il corpo come un meccanismo automatico, che grazie a una forza divina o alle combinazioni biologiche di elementi organici ci traghetta lungo un fiume, sempre più lentamente e con sempre più difficoltà, fino ad arrestarci in un isolotto e chiederci con forza di scendere lì. Ma sarebbe forse più appropriato considerare il fardello del nostro corpo mortale senza i filtri della coscienza che c’impone, sempre, di trovar risposte; sarebbe più semplice allora poter considerare i nostri muscoli, le nostre vene e le nostre ossa come ciò che realmente siamo, nel tempo presente. E se siamo quel che sentiamo accadere al nostro corpo e alla nostra mente, si può facilmente capire chi avesse messo quell’imbuto nella gola di Mariano: non gli spiriti, ma l’ umana tristezza e l’ angoscia della separazione.

Quel giorno di primavera, infatti, il numero d’inquilini della piccola casetta di muretti a secco sarebbe diminuito, da cinque a uno, ristabilendo uno lontana ma vicina normalità: la solitudine del suo fedelissimo abitante.