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Come vogliamo vivere? Il sovvertimento del reale tramite le parole e i silenzi su Gaza

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“In questi ultimi cinquant’anni sono cresciute a tal punto le forze e la taglia di Davide che tra lui e il sovrastante Golia non è più possibile riconoscere alcuna differenza, si può quasi dire, senza insultare l’offuscante chiarezza dei fatti, che si è trasformato in un nuovo Golia. Davide, oggi, è Golia, ma un Golia che ha smesso di caricarsi pesanti e infine inutili armi di bronzo. Quel biondo Davide di un tempo sorvola in elicottero i territori palestinesi occupati e spara missili contro bersagli inermi; quel delicato Davide di una volta guida i più potenti carri armati del mondo e schiaccia e distrugge tutto quello che incontra; quel lirico Davide che cantava lodi a Betsabea, incarnato ora nella figura gargantuesca di un criminale di guerra chiamato Ariel Sharon, lancia il “poetico” messaggio che è necessario prima schiacciare i palestinesi per poi negoziare con ciò che resterà di loro. In poche parole, è in questo che consiste, dal 1948, con leggere varianti meramente tattiche, la strategia politica israeliana. […] Le pietre di Davide hanno cambiato mano, ora sono i palestinesi che le lanciano. Golia sta dall’altra parte, armato ed equipaggiato come non lo è mai stato alcun soldato nella storia delle guerre, salvo, chiaramente, l’amico americano.”

– “Dalle pietre di Davide ai carri armati di Golia” di Josè Saramago per il quotidiano “El Paìs”, 21 aprile del 2002

Gaza che senza arrendersi si lascia guardare mentre viene rasa al suolo è il momento di frattura del nostro secolo. Gaza ci richiede di reimpostare le nostre categorie di pensiero: un momento in cui la collettività nota l’accadere di evento non nuovo, ma che non si era mai espletato così manifestatamente. Né le leggi della politica né i principi dell’etica hanno più valore nella storia del nostro mondo. L’unica legge che regola i rapporti è quella della forza e l’unica modalità dell’azione umana quella della ferocia assistita dall’iper-tecnologia. Basti guardare l’attuale ruolo di istituzioni e relativi organi internazionali come ONU, CIG, CPI e notare come gli stessi Stati che nel secondo dopoguerra decisero di fondarli sono quelli che, pur gloriandosi di agire secondo valori quali “democrazia” e “uguaglianza”, si rifiutano per primi di adempiere alle risoluzioni di condanna e di riparazione, sono i primi che si rifiutano di pronunciarsi contro lo scempio che accade in Medio Oriente – e non solo. Silenzio assordante.

È quindi un problema che parte dalla parola – o dalla sua assenza – e dal modo in cui questa viene declinata.

Diversi infatti sono i paradigmi con cui Israele ha declinato, nel corso di questi 77 anni,
la becera politica coloniale volta a sradicare e a dissolvere la popolazione palestinese e la sua l’identità politica, culturale e geografica.

Dalla nascita “a tavolino” dello Stato ebraico in poi, Gaza ha sempre rappresentato un ostacolo al progetto della progressiva costruzione della “Grande Israele” d’ispirazione biblico-messianica e alla retorica del “New Middle East”. Ma Gaza nonostante tutto ha resistito per quasi un secolo contro ogni forma di controllo.

Nel periodo di consolidamento dello Stato ebraico, dal 1948 fino alla fine della guerra dei Sei giorni, il primo paradigma adottato fu quello della dispersione: le incursioni dell’esercito israeliano all’interno dei campi profughi della Striscia si alternarono a piani di trasferimento coatto dei palestinesi che abitavano quelle terre. Iniziò però ad affermarsi a Gaza la pratica della resistenza armata per mano dei fedayyin palestinesi: di diverso avviso è però lo storico israeliano di ultradestra Benny Morris, che ha parlato invece di “infiltrazioni arabe” all’interno del territorio israeliano per volontà del Governo di tutta la Palestina (Ḥukūmat ‘Umūm Filasṭīn), proclamato a Gaza nel 1948.

Risale poi al 1955 l’Alpha plan, quando Stati Uniti e Gran Bretagna provarono ad attuare un piano di resettlement dei rifugiati palestinesi, sparititi tra Stati arabi e Israele, mentre a 70.000 rifugiati gazawi, già vittime della Nakba, sarebbe toccata la deportazione nel Sinai. Ma grazie alle partecipate mobilitazioni guidate dai Fratelli Musulmani e dal Partito comunista Palestinese (“No relocation, no settlement/ Down with US agents” e “They drafted the Sinai project in ink/ We’ll erase it with blood” sono solo alcuni degli slogan intonati da coloro che resistevano il primo marzo del ‘55) naufragò questo tentativo angloamericano, con la connivenza del dominio egiziano sulla Striscia, di ridisegnare territorialmente e demograficamente lo schema della regione.

Dopo la guerra di Suez del 1956-1957, la sterzata dell’Egitto verso il socialismo (si ricordi che nella programmatica Carta Nazionale del 1962 Nasser proclamò l’Egitto uno “stato socialista arabo”), la nascita dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) di Yasser Arafat  e dinnanzi all’impossibilità di trasferire i rifugiati palestinesi altrove, nel 1967 l’offensiva a sorpresa lanciata dall’Israele di Golda Meir contro i Paesi confinanti (Egitto, Siria, Giordania) e contro le milizie dell’OLP dà inizio al paradigma dell’occupazione militare a Gaza, nella Penisola del Sinai, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e nelle Alture del Golan, accompagnata da un massiccio insediamento dei coloni nelle terre palestinesi. Con la “Guerra dei sei giorni” Israele allargò illegalmente i suoi confini e non bastarono le richieste avanzate dalla risoluzione ONU 242 a dissuaderlo dall’occupazione di quei territori.

A porre in crisi questo modello di governo furono solo le due Intifade: la prima scoppiata a Gaza nel 1988 e la seconda durata dal 2000, in seguito alla provocatoria “passeggiata di Sharon” nella “Spianata delle Moschee”, e durata fino all’agosto del 2005. Grazie all’incremento demografico della popolazione palestinese e alla forza dei combattenti il governo di Ariel Sharon fu costretto, durante la seconda Intifada, a decretare il ritiro delle truppe dell’IDF e dei coloni dalla Striscia.

Ma questo ritiro da Gaza consentì però a Israele di isolare Gaza dal resto dei territori occupati e di sigillarla, controllandone definitivamente i confini terrestri e marittimi. Da quel momento Gaza cadde vittima del paradigma del ghetto che sarebbe durato a lungo, almeno fino al 7 ottobre del 2023. La ghettizzazione di Gaza non è solo una crisi umanitaria, ma è una strategia politica ed economica per mantenere il controllo coloniale di una popolazione indesiderata, è un processo sistematico attraverso il quale Israele ha trasformato la Striscia in un’enorme prigione a cielo aperto, privando la popolazione palestinese di libertà di movimento, delle sue risorse (come il gas naturale al largo delle coste di Gaza) e dei suoi diritti fondamentali (Israele controlla e limita le importazioni di cibo a Gaza, dove, secondo l’Onu, anche a causa dell’alta contaminazione delle acque, il 65% della popolazione soffre di insicurezza alimentare), negando il diritto al ritorno e anche alla fuga: non a caso proprio adesso 2,4 milioni di palestinesi che abitano nella Striscia non possono lasciare questo territorio, già devastato da oltre 15 mesi di violenza deliberata. Apartheid. Lenta e insostenibile pulizia etnica. Basti allora indagare l’evoluzione del movimento nazionalista palestinese e le vicende geopolitiche che hanno infestato queste terre per comprendere quanto i famigerati attacchi sferrati al di là del recinto della Striscia in quell’ottobre del 2023 non siano che un tentativo, non tanto differente da quelle prime forme di resistenza del ’48, motivato a continuare la resistenza armata palestinese.

Arrivati a questo punto ci si potrebbe chiedere il perché di tutto questo.

Il sionismo politico, inizialmente nato nel XIX secolo come reazione all’antisemitismo europeo imperante, è sempre stato alla base delle politiche israeliane, e l’aggressivo progetto etno-nazionalista cui dà fondamento dipende ancora oggi dalla volontà di rafforzamento dell’identità ebraica statale per mezzo della cancellazione dell’alterità, in particolar modo di quella palestinese. Ma indagare il rapporto che Israele intrattiene con la sua stessa mitologia non basta a spiegare la situazione attuale: non basta parlare delle fantasie espansionistiche del sionismo né del fervore della “lobby ebraica”; non basta parlare della convinzione che in questo mondo assurdo esista un popolo eletto da Dio che giustifichi, in nome di orrori subiti e di ingiustificate paure, azioni guidate da un patologico razzismo settario; non basta parlare del fatto che qualsiasi violenza infliggeranno agli altri sarà sempre inferiore a quella patita, in un vittimismo senza soluzione di continuità, che copre come un velo tutto il resto.

Ma in fondo c’è altro. Dovremmo smettere di scomodare la lotta tra le religioni, la lotta tra differenti “visioni”, la confortevole categoria dell’opposizione “Occidente-Oriente”. Il militarismo imperante non è dettato da nessuna “guerra tra civiltà” ma piuttosto dalla lotta tra gruppi di capitale che in questa zona del Medio Oriente ha trovato, con le ingenti dotazioni petrolifere della regione, un luogo strategico per il capitalismo contemporaneo.

E Gaza che lotta per la sua liberazione ha provocato un risveglio politico globale: fastidioso macigno, diviene luogo d’elezione per testare la rimozione dei limiti di potere arbitrario. Nell’agenda politica ed economica del XXI secolo sembra chiara la volontà di distruzione degli equilibri normativi post-bellici e la recrudescenza di una prassi imperialista volta a dissolvere i processi di liberazione anticoloniale avviati durante il secolo breve. E Israele sarebbe un nodo fondamentale del progetto: spicca nell’espansione dell’industria bellica, nello sfruttamento dei territori occupati per la sperimentazione sregolata di armi all’avanguardia e di tecnologie di sorveglianza dei cittadini (tangibile è la dipendenza dall’industria bellica), nell’estrazione e nel commercio di idrocarburi.

Illuminanti le parole del professore Adam Hanieh per comprendere questa trascurata fenomenologia: From State-led Growth to Globalization: the Evolution of Israeli Capitalism e Crude Capitalism: Oil, Corporate Power, and the Making of the World Market sono alcuni dei suoi contributi riguardanti il tema. L’obiettivo dell’Occidente, e in particolare degli USA, è attuare una normalizzazione culturale, politica, ed economica tra i due grandi pilastri che gli permettono di agire su questa parte del pianeta, Israele e Stati del Golfo con i paesi arabi in generale: in questo senso anche gli accordi di Oslo, fantomatici portatori di pace, potrebbero aver costituito una giustificazione per Egitto e Giordania all’avvicinamento con Israele, mentre gli Accordi di Abramo del 2020 sono stati particolarmente importanti per lo stato israeliano, concorrendo a creare legami economici fondamentali con Bahrein, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Diventa quindi “strategicamente” importante che le nostre azioni vengano coadiuvate da una migliore conoscenza delle dinamiche del Medio Oriente e da una profonda comprensione di come le monarchie del Golfo, gli Stati Uniti e Israele si inseriscono nelle dinamiche del capitalismo fossile e dell’esportazione globale del greggio: non possiamo comprendere fino in fondo l’oppressione della Palestina se ignoriamo e separiamo da questa l’espansione economica e capitalistica israeliana.

Eppure, sembrano non esserci parole per poter spiegare, per poter parlare di fronte all’orrore di Gaza.

There are no more words to speak about what’s going on in Gaza”: Abir Alsahlni al Parlamento Europeo sta con la mano sinistra alzata e rossa a simboleggiare il sangue versato, la destra a tappare la bocca, e resta in un silenzio che poi rompe con queste parole.

La nostra condizione è di dolorosa afasia: in silenzio non per sospendere il giudizio, ma perché a forza di raccontarla, l’atrocità perde significato; perché abbiamo capito che le parole non bastano, soprattutto quando quelle che adoperiamo per rendere intelligibile la realtà dei fatti vengono riprese e scagliate contro di noi: antisemiti ci chiamano, come se fosse razzista difendere un popolo e criticare il sionismo, che è e resterà una filosofia politica deprecabile.

Ma dietro la pratica del discorso si nasconde qualcosa di più inquietante: la risemantizzazione delle nostre parole, operata dall’élite politica e dalla propaganda di stampa e media liberali con lo scopo di normalizzare l’ondata di orrore attuale che Israele ha portato all’attenzione globale. Una distopia ormai presente dove il nascondimento non è più caratteristica della brutalità sterminatrice, che anzi, ben in mostra, vien negata fino all’ipocrisia o viene usata come vessillo di superiorità.

Leggiamo ad esempio i punti 87-92, capitolo IV, del rapporto A/HRC/55/73 del 23 marzo 2024 redatto dalla Relatrice ONU Francesca Albanese. Uno dei tipici “camuffamenti umanitari” di Israele riguarda i suoi sforzi per fornire una copertura “legale” agli attacchi sistematici contro le strutture e il personale medico per provocare il collasso del settore umanitario a Gaza. Prendere di mira le strutture mediche e accusare il nemico di “medical shielding”, quindi di schermarsi all’interno di queste ultime, è una tattica ricorrente di “medical lawfare” che Israele ha già usato in operazioni precedenti nella Striscia con lo scopo macabro di distruggere le infrastrutture a supporto della vita dei palestinesi. Se già nel Novembre 2023 l’OMS parlava di “public health catastrophe”, con 26 ospedali distrutti su 35, nel gennaio 2025 l’ISPI riporta che “l’80% delle infrastrutture civili è stato danneggiato o distrutto” con nessun ospedale a Gaza funzionante.

Leggendo alcune dichiarazioni dell’establishment sionista comprendiamo l’insita intossicazione mentale causata dal progetto della “Grande Israele”: “Le bestie umane devono essere trattate come tali, Non ci sarà né acqua né elettricità [a Gaza], ci sarà solo distruzione” – Ghassan Alian, generale israeliano; la striscia è “un nido di vespe” per il capo dell’IDF Oren Zini, dichiaratosi “contrario all’ingresso di qualsiasi cosa che possa aiutarli a riprendersi”; Nissim Vaturi, vice presidente del parlamento monocamerale israeliano, afferma che i gazawi “sono feccia, subumani, nessuno al mondo li vuole. I bambini e le donne vanno separati, e gli adulti eliminati”. Eppure, Netanyahu nel luglio 2024 ha affermato che “Israele non ha ucciso nemmeno un civile a Gaza”, guadagnandosi il plauso del Congresso americano.

Il sovvertimento del reale è un’operazione che inizia dalla dimensione immateriale delle parole e che tende ad avere implicazioni materiali nella nostra realtà. E nel mentre qui in Europa impera il silenzio, o tutt’al più una eco vuota che ripete ad nauseam i soliti mantra, come quello dei “terroristi” che usano i civili come “scudi umani”, riducendo i palestinesi a meri animali: eclatante esempio è l’ospedale di Al-Shifa, distrutto alla fine del 2023 con la scusa di aver nascosto al di sotto un quartier generale di Hamas. Pretesto ottimo per conciliare il sostegno al massacro di popolazioni civili con la pretesa di difendere lo stato di diritto. “Anche i media occidentali dovrebbero essere processati per aver partecipato a questo genocidio” afferma l’Albanese, perché “è un genocidio che è stato trascurato e anche giustificato e reso possibile dai media, che hanno deciso di aderire alla narrazione militare israeliana, usando la sua stessa terminologia, amplificando le loro bugie costruite”.

Le parole sembrano non poter restituire più nulla di vero né esser degne di fiducia. La perdita di empatia per i corpi dei palestinesi è la diretta conseguenza di questa risemantizzazione e di questa normalizzazione della violenza. I nostri organismi di civili privilegiati si distaccano dalla naturale connessione che si dovrebbe provare nei confronti del corpo di un fratello oppresso. Anzi, questo fratello lo abbiamo ucciso con compiacenza con le nostre mani: ma per noi Caini non ci sarà nessun paradossale perdono da un dio superiore. Insensibili alle atrocità, la sofferenza è divenuta virtuale, un simbolo, mentre l’altro ha cessato di essere corpo sensibile e dunque degno della nostra comprensione.

La situazione odierna ci lascia con un enorme vuoto sotto i piedi. Il 19 gennaio 2025 è entrato in vigore un cessate il fuoco Israele-Hamas. Un accordo fragile e fattucchiere, dato che Israele appena due giorni dopo ha ufficialmente lanciato l’operazione militare “Muro di ferro” assediando Jenin nella Cisgiordania occupata, la “Giudea e Samaria” che intendono “difendere”. E per rendersi conto di quanto la violenza non sia diminuita basti leggere l’ultimo report A/HRC/58/28 dell’ONU sulla situazione umanitaria nella regione. Nel contempo Nethanyahu definisce “revolutionary and creative” la proposta trumpiana di deportare e disperdere in altri paesi i 2,4 milioni di gazawi, affermando che “la Striscia sarà consegnata agli Stati Uniti da Israele alla fine della guerra” e che Gaza potrebbe diventare la “Riviera del Medio Oriente”: un piano che si allontana dalle mire di Washington di normalizzare le relazioni economiche tra Israele e Paesi del Golfo, fondamentali per il capitalismo fossile del Medio Oriente.

Non c’è stata nessuna guerra, nessuna autodifesa degli israeliani. “Le pietre di Davide hanno cambiato mano, ora sono i palestinesi che le lanciano. Golia sta dall’altra parte, armato ed equipaggiato come non lo è mai stato alcun soldato nella storia delle guerre, salvo, chiaramente, l’amico americano.”, scrive Josè Saramago nell’aprile 2002 per “El Paìs”. Ed è proprio adesso che dobbiamo imparare a pronunciare a gran voce la parola Genocidio.

Quest’ultima categoria non è applicabile solo all’Olocausto, ma anche a ciò che la Germania ha fatto in Namibia, il Belgio nel Congo, Israele in Palestina. Ma il genocidio, atto criminale volto a distruggere nella sua totalità o in parte un popolo, si espleta in diversi atti: con l’uccisione dei membri di un gruppo, con l’intento di infliggere a questo severi danni fisici o mentali attraverso torture, con il calcolo e la creazione delle condizioni per portarlo alla distruzione (strangolamento economico, geografico, politico), ma anche con la “prevenzione” delle nascite o il trasferimento coatto di persone. Un “genocidio incrementale”, lo chiama lo storico Ilan Pappé.

Mentre il mondo guarda per la prima volta un genocidio coloniale in “live-streaming”, solo la giustizia potrà guarire le ferite che gli espedienti politici hanno reso purulente. Bisogna garantire giustizia riparativa, che colpisca gli artefici, e giustizia storica, quella che i civili della Palestina – nazione smembrata e dispersa per le vie del mondo- necessitano per poter ricominciare.

Cosa dobbiamo richiedere una volta per tutte per sperare nella fine della sofferenza dei nostri fratelli palestinesi? Pretendere adesso la fine del genocidio che non è mai davvero terminato, nonostante il ceasefire; pretendere adesso la fine dell’occupazione israeliana: la deadline è il Settembre del 2025 ed è stata fissata dalla Corte interazionale di Giustizia in una risoluzione del settembre 2024, con l’ordine di ritirare le truppe, smantellare gli insediamenti abusivi, rinunciare al controllo esercitato sulle risorse umanitarie palestinesi, permettere e non ostacolare il ritorno di chi è stato dislocato. Ci sono ancora Stati Membri, tra cui l’Italia, che non riconoscono la Palestina per ipocrisia, per non contrariare Israele e Stati Uniti, predicando da 30 anni la soluzione dei due stati senza mai impegnarsi coerentemente in termini pratici. Queste sono responsabilità cui i nostri governi, e non solo Israele, devono adempiere.

 

Cosa possiamo fare noi in quanto individui, comunità universitarie e non? Informarci e condividere le nostre idee, soluzioni, conoscenze. Come quando nel maggio 2024 l’Intifada studentesca ha abitato gli spazi universitari di città italiane come la nostra Catania, dando un’opportunità unica per momenti di gioco, canto, confronto e di richieste attive: tagliare ogni rapporto di collaborazione con le università di Tel Aviv e di tirocinio con la Leonardo S.P.A, società attiva nell’industria nella guerra, una delle più importanti fornitrici di armi allo Stato di Israele.

Ora dovremmo domandarci “come vogliamo vivere?”. Contro il paradigma del silenzio e della risemantizzazione, la “lotta” rischia di rimanere una postura-feticcio se non accompagnata da una seria dichiarazione di responsabilità e dalla volontà di auto-educarci e di educare l’altro: capire cosa vige all’interno dei confini della legalità e cosa no, per comprendere autonomamente come la classe politica che ci dovrebbe rappresentare stia tradendo le nostre costituzioni e come si stia rendendo responsabile di questo scempio, rendendo conseguentemente responsabili anche noi. “[Israel had] failed to wipe us out, we are not red indians”, affermava con forza Yasser Arafat. I Palestinesi sono forti nell’animo e continueranno a resistere. Ma per non abbandonarci al paradigma della dimenticanza e della disperazione – due facce della stessa medaglia, poiché se abbiamo ancora tempo per dimenticare ciò che accade o per batterci il petto significa che abbiamo ancora troppo privilegio- dobbiamo parlare a voce alta e pretendere. Però non prima di aver riconquistato l’empatia per i corpi di coloro che abbiamo dimenticato.