Concentrarsi vuol dire esistere: il furto di attenzione cui scegliamo di sottoporci è il più grande latrocinio esistenziale del tempo presente.
Nel feed, nell’infinita fantasmagoria di legioni di materiale di intrattenimento, la vita assume la forma onirica dello stordimento permanente. La coscienza, ridotta alla passiva e bulimica immersione in un flusso di impressioni senza fine, smarrisce se stessa. Percossa da mille eccitamenti languisce infine nell’accidia.
Il cellulare e i social garantiscono una pervasiva e perpetua gratificazione. È lo scrolling, l’automatismo di un godimento senza fini né fine, di una coazione alla ripetizione compulsiva.
L’esperienza dello scrolling espropria colui che si serve dei social della propria volontà, narcotizza la coscienza, frammenta l’attenzione, ottunde il pensiero. Come descrivere, se non come alienazione, la condizione dell’uomo che scrolla? In quello che egli in principio avrebbe chiamato il suo servo egli riconoscerà il padrone assoluto del suo tempo, della sua volontà, la fonte dei suoi desideri, delle sue opinioni; la fonte della sua infelicità e del suo isolamento.
Quale vita sociale è possibile con i social se l’interazione umana è ridotta all’automatico e perpetuo chiacchiericcio di individualità omologate e disperatamente isolate? È ancora possibile l’espressione autentica di sentimenti se la mediazione degli schermi ha imposto agli esseri umani l’obbligo non derogabile di trasformarsi in stereotipi parlanti?
Sembra che una strana follia possieda gli uomini del nostro tempo, che trascina con sé le miserie individuali di una umanità triste: questa follia è la passione mortale per il “virtuale”, la necrofilia del virtuale, la fuga verso una prigione di cui si amano le mura.
Circe ci ha preso con sé: entriamo nel feed, contenti del nostro pranzo di ghiande dimentichiamo il ritorno, scrolliamo fino a impazzire.
Eppure, se qualcosa della consapevolezza di sé rimane, se una coscienza che si vorrebbe libera e autentica resiste nella strana narcosi del nostro tempo, sia pure la coscienza dolorosa della nausea, dello spaesamento solitario, della degradazione, allora la liberazione diventa possibile. Allora giunge il tempo di spezzare catene a cui liberamente ci si era stretti, il tempo del riscatto da una schiavitù che liberamente si era assunta.
Giunge il tempo di distogliere gli occhi dallo schermo, volgerli in alto, drizzare la schiena e spegnere il telefono, non riaccenderlo più, disfarsene.