Voci minori

I Mandorli: cap. 2

Nell’anno del Signore Millenovecentocinquantatre, Troina fu attraversata da un grande

sconvolgimento: la costruzione di una Diga. S’immagini cosa voglia dire, per uno dei tanti

borghi del meridione d’Italia, accogliere temporaneamente operai provenienti da ogni

provincia del bel paese; sarà allora più facile ascoltare e comprendere le parole di quegli

sguardi che da diffidenti diventano carichi di curiosità, e infine d’amicizia e di sincero affetto.

«Una Diga così grande non l’ha mai costruita nessuno, qui in Sicilia! Serviranno tanti lavoratori continentali, qui noi abbiamo da badare alle campagne!» fu il mantra cittadino, sfuggente di bocca in bocca, che precedette l’inizio dei lavori; un mantra carico di ansietà febbrile, talmente difficile da sopportare da trasformarsi in stizza. Perché devono costruirla proprio qui, questa Diga? Perché deve venir tanta gente da fuori? Erano queste le domande silenziose ma dirompenti come un fiume sotterraneo, che affollavano i pensieri di chi prestava ascolto alle chiacchiere sulla questione del momento. Può sembrar assurdo, ai giorni nostri, che la diffidenza verso chi è nato e vissuto lontano da noi possa spingerci verso l’infausto desiderio della rinuncia alla costruzione di un bacino idrico nuovo, che possa portare acqua in tutte le nostre case. Eppure non bisogna esser troppo inclementi, con i contadini e cittadini troinesi degl’inizi dei Cinquanta: a quell’epoca il mondo aveva confini più stretti, per alcuni coincidenti con l’ultima casa del quartiere; quante aspettative cariche di ansietà possono serpeggiare tra le vie di un piccolo paese dell’entroterra siciliano, a millecentoventuno metri sul mare, quando si aspetta l’arrivo di duecento forestieri? Come tutti i troinesi, anche Mariano si fece raggiungere dalle parole di diffidenza che trasportava il vento. Cosicché quando l’assessore comunista gli chiese di ospitare cinque operai romagnoli, egli si annuvolò in volto. Chi vvo’ ddiri c’ann’a stari intra ni mìa? Su puonnu

scuddari! ripeteva amaro tra sé e sé, quel giorno di settembre del millenovecentoquarantanove. Ma come, proprio lui doveva ospitare quei disgraziati, proprio

lui che aveva mandato i figli e la moglie a vivere in paese? La casa in cui viveva era molto

piccola, fatta di pietre travi e paglia, e condividerla con altre tre persone significava vivere

stipati come gli animali nelle stalle. Che senso ha allevare animali per vivere noi come

animali? aveva detto alla moglie per convincerla a tornare a vivere dai suoi genitori e a portare i figli con sé. E a cosa era servita quella rinuncia drammatica, se l’assessore doveva imporgli la presenza di

quattro estranei dentro casa sua? Le servette di Don Paolo gli avevano detto che i comunisti

volevano spogliare i contadini di ogni bene, ma mai si sarebbe immaginato che fosse toccata

a lui la disgrazia di un esproprio! Lontani erano i tempi in cui Mussolini s’ittau a perdizioni pi

nutri puvirazzi! La riforma agraria gli aveva garantito un pezzo di terra, suo, doveva poteva

vivere e cercarsi da vivere. E adesso i comunisti volevano portarglielo via?

Ma Mariano era un ragazzo mansueto, poco dedito alle passioni infuocate e alla collera. E

così, senza che in effetti un esproprio avvenisse, cinque operai si presentarono una mattina ai

piedi della lunga salita su cui si affacciava l’ingresso della sua casetta. Erano accompagnati

dall’assessore, e furono subito riconosciuti da Mariano, che si ripetè tra sé e sé qualche parola convincente per ottenere l’esenzione da quell’esproprio maledetto. Ma quando raccolse le energie necessarie a pronunciarle, l’assessore fece un gesto con la mano rivolto ai cinque romagnoli. «Venite qui, fate presto che devo tornare in paese. Vi presento Mariano, vi ospiterà lui. Ho già parlato con l’ingegner Barbera, la società vi pagherà il vitto e l’alloggio, come stabilito dal contratto sindacale». Affitto? Aveva sentito bene? Così sarebbe stato ricompensato, per quell’ospitalità? Tentò di chiederlo all’assessore, brutalmente, senza giri di parole, ma questi si era già voltato verso il sentiero. Restò solo, con quei quattro uomini in camicia e pantaloni di velluto, barbuti e irsuti, la parlata sconosciuta, fulminea, cupa. Cuomu vi chiamati? iu sugnu Mariano, vu dissi l’assessuri – chiese, per spezzare quel silenzio pesante come il piombo del suo malumore e della sua inquietudine. Ma quelli non risposero, rimasero in silenzio come chiedendosi cosa avesse detto quello strano ometto bruciato da sole. Poi uno di loro sembrò intendere: accese una sigaretta che aveva pescato da dietro l’orecchio, e disse con voce nasale: io mi chiamo Sergio. A ruota lo seguirono i quattro bellimbusti: io mi chiamo Fedele, io Venti, io Scintilla, io Il’ic. Mariano restò molto perplesso, volle dir qualcosa ma le parole gli morirono in gola. Non capiscono niente di quel che dico? E che nomi hanno? Il panico lo assalì, silenzioso e subdolo come un incandescente veleno che giunge al cuore: come farò? si chiese, cuom’aiu a ffari?