Catania, Mondo

Sfidare l’assedio: la testimonianza di chi parte per Gaza da Catania. “Dovete scioperare”.

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“Mentre erano in carcere in Israele ed erano minacciati dai soldati israeliani, o mentre avevano i mitra puntati alla testa, gli attivisti della Freedom Flotilla mantenevano sempre la calma”, spiega Chris, fotografo svedese di 22 anni che partirà per Gaza: “la violenza è inutile, la violenza è controproducente, non risolverete niente con la violenza” diciamo a chi ci imprigiona e a chi ci minaccia”.

Anche al porto di Catania l’equipaggio della Freedom Flotilla è sereno. Forse per le decine di corsi di gestione di situazioni di stress, o forse perché per alcuni è la quinta volta che fanno una cosa simile. Impegnata in decine di chiamate, perennemente sorridente, c’è Caoimhe Butterly, attivista, operatrice umanitaria e psicoterapeuta, una delle voci più autorevoli e coerenti della solidarietà internazionale. Irlandese, da oltre vent’anni lavora nei contesti di conflitto e occupazione: Iraq, Libano, Haiti, Siria, ma soprattutto Palestina, dove nel 2002, mentre accompagnava delle ambulanze nella Striscia di Gaza, è stata colpita da un proiettile sparato da un soldato israeliano. Da allora ha preso parte a numerose missioni umanitarie e politiche, tra cui le flottiglie internazionali per rompere l’assedio navale su Gaza, diventandone oggi una figura chiave all’interno della Freedom Flotilla Coalition.

Abbiamo parlato con lei alla vigilia della partenza: tra logistica, supporto emotivo e speranza concreta, ci ha raccontato cosa significa davvero partire per Gaza nel 2025.

Come stai? Greta Thunberg prima di partire ha detto di provare “tutte le emozioni possibili”, per te è lo stesso?

Io sono stata coinvolta in missioni dirette a Gaza a partire dal 2008, quindi ho partecipato a molte altre flottiglie, fin dall’inizio del movimento. Posso dire che sono abbastanza abituata alla giostra di emozioni che una partenza simile può suscitare. Ma questa è un’ordine di grandezza molto più grande di qualsiasi altra flottiglia a cui ho partecipato prima. Ci sono anche molte sfide logistiche e molte più persone, tutte con speranze e aspirazioni e impegni e dedizioni, ciò implica anche molto più lavoro emotivo. Io sono un’attivista e anche una psicoterapeuta, e in queste doppia posizione cerco di organizzare la logistica delle barche in quanto attivista, e come psicoterapeuta provo a fornire i supporti psicosociali che sono necessari quando ci sono ritardi e quando le persone provano molta ansia e apprensione riguardo a ciò che potrebbe accadere, quale scenario potrebbe verificarsi sulla flottiglia.  Le recenti dichiarazioni di trattarci come terroristi non hanno aiutato.

Quanto bisogna essere forti per affrontare questa sfida?

Penso che le persone spesso sottovalutino la propria forza. A bordo della flottiglia c’è una madre di sei figli. C’è un’altra madre che ha due figlie sulla ventina. Ognuna di loro è su una barca diversa. Tre donne della stessa famiglia che partecipano. C’è uno chef di 82 anni su una delle barche. C’è un nonno di otto figli che fa parte dell’equipaggio su un’altra. Un ragazzo ha una figlia di poche settimane. Ci sono persone giovani e anziane, che anche se provano apprensione e a volte paura, perché le immagini del genocidio in diretta streaming non possono non condizionarti, sono abbastanza forti per affrontare questo viaggio. Certo noi facciamo dei corsi, ci educhiamo alla non violenza, ci prepariamo da un punto di vista psicologico, ma siamo persone normali.

Cosa ti aspetti da questo viaggio? Pensi che cambieranno le cose questa volta?

Penso che dopo vent’anni di partecipazione e organizzazione di flottiglie, nutro una speranza pragmatica. Vedo sempre quella possibilità che forse questa voltà si aprirà un corridoio umanitario. Ho anche l’esperienza di tante e tante flottiglie fermate dalla Marina israeliana. Alcune con violenza, tutte fermate illegalmente. Che le barche ci riescano o meno, questa è una chiamata ai nostri governi, alla società civile, ai movimenti sociali e ai sindacati a riconoscere che il tempo per le dichiarazioni di condanna è passato da tempo. C’è un’urgenza di mobilitarsi, e di tradurre tutta l’indignazione, il dolore, l’amore, la solidarietà che proviamo in azione politica pratica, perché in assenza di ciò l’impunità dei governi e dell’esercito israeliano continua ininterrotta. Anche Catania lo ha dimostrato.
Un mondo che vede compiere non solo un genocidio quotidiano, ma anche un infanticidio, ecocidio, scolasticidio, erbicidio, e tutte queste sottocategorie di annientamento e lo permette allora è un mondo complice.

 E come vedi il futuro di Gaza? 

Ho vissuto e lavorato a Gaza per diversi anni. I miei ricordi sono sia della natura soffocante dell’assedio sia della grande bellezza della Striscia di Gaza, che per me è sempre stato un luogo di bellezza.

Ricordo belle persone, ricordo il mare che respiravo come si respirava la creatività, la cura e il senso di comunità della gente. Cerco davvero con molta forza che i miei ricordi e quasi la mia visione, il mio semplice ricordo di Gaza non siano colonizzati dalle immagini di trauma, dolore e distruzione. 

Ma è anche vero che il livello di trauma e dolore a Gaza è davvero quasi senza precedenti in termini di guerra moderna. Ma nonostante ciò ho anche fiducia che le persone alla fine ricostruiranno Gaza, e cercheranno di intessere di nuovo il tessuto sociale delle loro comunità, ma ci vorrà molto tempo. La distruzione è stata molto profonda.

Cosa si può fare a terra mentre voi siete in mare?

Scioperiamo, scioperiamo, scioperiamo. La mobilitazione dei lavoratori è uno dei pochi strumenti che ci rimangono. Le persone hanno provato di tutto: manifestazioni, petizioni, boicottaggi, dissenso, educazione, sensibilizzazione. Uno dei pochi strumenti di potere collettivo che le persone hanno per cercare di fermare questo orrore è la mobilitazione collettiva del lavoro. E spero che accada, anche se siamo già in ritardo. Penso che sia stato fatto un incredibile lavoro in luoghi come Genova e Marsiglia, ma deve succedere ovunque.