Pubblichiamo volentieri il contributo di Marcello Fisichella, neoinsegnante a Pavia che ha studiato a Catania. Lo ringraziamo per le sue riflessioni e il suo racconto denso, satirico e profondamente critico: un affresco pungente del sistema scolastico e della sua trasformazione in prodotto di mercato.
“Scusi, che film danno? Vedo un sacco di gente che sta entrando”.
“Ma guardi, si intitola Corso abilitante per docenti, dura qualche centinaio di ore e costa duemila euro, è una produzione del Ministero dell’Istruzione. E del Merito, me lo dimentico sempre.”
La ragazza va via confusa, convinta di essere stata presa in giro. Ma è la verità. A Milano, presso il centro commerciale XXX, nella sala 3 della nota catena cinematografica YYY si radunano centinaia di insegnanti per seguire le lezioni dell’Università Telematica ZZZ. Come per un film, gli addetti in uniforme fanno scorrere la fila, si timbra un badge che attesta la presenza e ci si siede su poltrone comodissime. L’utenza (clientela) è assai variegata: precari piuttosto âgé sperano nell’abilitazione per passare in “prima fascia”, vincitori di concorso all’ultima corvée e neolaureati ancora in trance agonistica dall’ultimo esame. Insegnanti o aspiranti tali spendono cifre tra i 1500 e i 2500 euro (in comode rate) per seguire le lezioni, l’equivalente di uno stipendio, quasi due. I corsi non sono formalmente obbligatori ma gli iscritti sono migliaia, spinti dalla paura di essere scavalcati da chi si abilita. Altri, semplicemente, non hanno i soldi e non partecipano: una scrematura per censo, netta e silenziosa.
L’introduzione dei corsi abilitanti risale al Governo Draghi, “il governo più competente della storia”. Salito al potere, l’unico partito che non faceva parte di tale straordinaria compagine governativa ha serenamente seguito la via tracciata, attivando i percorsi. I sindacati, impotenti, allargano le braccia: sono cari, ma non c’è come sottrarsi; altri, più pragmatici, dietro percentuale indirizzano gli iscritti presso questa o quella telematica. Gli atenei pubblici hanno organizzato (a prezzi più bassi) i loro percorsi: introiti assai graditi, dopo decenni di tagli che ne hanno scarnificato le finanze. Ma chi ha vinto la partita sono le università telematiche: Pegaso ha guadagnato (stimando al ribasso) dalla mungitura di almeno 7000 iscritti 14 milioni di euro. Il Ministero, per evitare di favorire troppo le telematiche, ha salomonicamente deliberato che il 50% delle lezioni si tenesse in presenza: ed ecco che la premiata università XXX s’è inventata l’ardita strategia di edutainment: cinema abbastanza spaziosi da contenere 400 studenti alla volta. Buona visione.
Luci basse e calde, penombra che invita al sonno, in piedi davanti ad un tavolino minuscolo, la professoressa Cerasa parla col microfono in mano, perfettamente a suo agio. Sullo schermo è proiettata la sua biografia: c’è scritto, ma lei è particolarmente generosa nel ricordarlo, che ha studiato in America, che svolge “numerose consulenze per diverse Università e per il Ministero” e ricopre il ruolo di “Professor of Experimental Pedagogy and Special Education Member of the Teaching, Learning and Evaluation Laboratory”. Soave, si aggira per la sala col microfono incollato alle labbra, corricchia per le scale a “raccogliere i feedback, che sono fon-da-men-ta-li”. Mentre saltella sbuffa “Uh, che fatica! Oggi posso saltare palestra”. Qualcuno ride dalla prima fila, la setta dei pedagogisti.
“Perché, ragazzi, diciamolo una volta per tutte: la vecchia lezione frontale è ormai finita! Oggi ci sono nuove modalità molto più attive e coinvolgenti per stimolare i nostri alunni”. La professoressa Cerasa è nel suo habitat: con fare mediasettesco, vagamente ammiccante si lavora il suo pubblico: “Psicologo, educatore, motivatore, insomma, ragazzi, cosa non è oggi un insegnante? Cos’è che non facciamo, noi?”. Le scappa una S un po’ troppo aspra, che tradisce le sue origini, nascoste benissimo da valanghe di peer tutoring, flipped classroom, innovative approach.
Oltre che carismatica, la “tutor responsabile del corso abilitante” è colta e poliedrica: in un solo giorno, dalle otto alle tredici, tiene ben tre lezioni diverse. Con leggiadra disinvoltura passa dalla pedagogia speciale alle metodologie didattiche (digitali e innovative, ovvio) per finire con due ore di legislazione scolastica. Con calcolatissimo sospiro, verso le dieci chiede una “piccola pausa, giusto per bere un sorso, ma torniamo subito, non si molla!”. Poi, puntuale, riprende a parlare: le lezioni sono diverse, ma il filo rosso è uno: “Cam-bia-men-to”. Sillabato, declamato con una É pensosamente, penosamente chiusa a forza (la professoressa ci tiene a ribadire di essere milanese), il cambiamento aleggia proiettato con voce diaframmatica in stampatello sopra le teste dei corsisti: “Cambiamento, ragazzi, è quello che dovete portare nelle scuole: oggi come oggi è im-poss-ibi-le lavorare senza le skills delle ICT, le “information and communication technologies”. Sta rivelando le meraviglie del mondo nuovo, mentre con grinta e un certo piglio alpinistico scala i gradini aggirandosi fra gli occhi vuoti dei presenti: “la scuola cambia, ragazzi, la società si evolve, e non possiamo restare indietro: è fondamentale integrare le nuove tecnologie nella vecchia scuola. Pensateci un attimo (posa riflessiva), quanti argomenti noiosi siete costretti a trattare… E ci pensate a cosa costringete i vostri studenti? Ore di lezione a introiettare concetti in modo passivo, sterile, ma oggi, coi nuovi sistemi che il digitale ci offre, possiamo fare di più, molto di più”. Calca sulle ultime parole e sembra di potervi leggere invitanti allusioni. Si avvicina al centro della sala, si china sul microfono, circospetta, a svelare un segreto: “e poi, ragazzi, quanti casi difficili ci sono oggi a scuola?”
La platea, annichilita da ettolitri di parole senza sosta, esala qualche “eh, avoja”, qualche mano mulinella in cerchio a significare “tantissimi”.
“Ecco, ragazzi”, la professoressa s’è quasi piegata ad angolo retto, punta il microfono sulla platea, “ma ditemi la verità (ammonisce col ditino), cosa vorreste, una classe brillante e autonoma? O 25 ragazzini provenienti da contesti difficili?!”
“Nooo! I brillanti! I brillanti!”, urla qualcuno.
“Eh si, cari”, fa sognante la professoressa, “tutti vorremmo ragazzi preparati, attenti e spigliati, ma purtroppo la realtà è fatta di casi difficili, criticità, problemi…”
Subito si rianima: “Ma c’è la soluzione! Le tecnologie ci consentono di venire incontro alle esigenze di alunni – e ci tengo a dirlo – che non sono disabili, ma che hanno una disabilità. Mi raccomando, ragazzi, la differenza è importante! Non dobbiamo (la voce si fa più bassa, a trasmettere dolcezza e compassione) identificarli con la loro disabilità (e schiocca, con la boccuccia a cuore, un altro paio di no, no, no, contristati e partecipi): queste persone soffrono di un disturbo, ma non sono quel disturbo. Questi alunni (la voce si ritempra, guidata da un ideale più alto) hanno potenzialità che possiamo – e dobbiamo! – scoprire e in questo le nuove tecnologie non sono un aiuto, ma la soluzione! Oggi non è possibile immaginare la scuola senza strumenti digitali”. Se non fosse per i lineamenti duri da contadina meridionale astuta, sembra di sentire la Thatcher. There is no alternative. Forse è superfluo aggiungere che il centro commerciale sorge in piazza Brambilla, “imprenditore”, e fa angolo con via Friedrich Von Hayek, “economista”.
“Vi mostro subito un esempio pratico: prendete Ivan, un ragazzo di 14 anni con ADHD”. Appare una diapositiva con dei grafici a linee. “Lui a inizio anno seguiva le solite, vecchie lezioni frontali, sono lì, segnate in verde, e le sue valutazioni, le vedete? Sono quelle gialle, tendevano molto molto verso il basso. Ma quando io e la mia equipe siamo intervenuti abbiamo introdotto delle metodologie didattiche assolutamente innovative per aiutarlo nello studio. Tendendo il microfono verso lo schermo urla: “guardate, guardate! In verde calano progressivamente le lezioni frontali e guardate come sale la linea blu”. Pausa, suspence: “Quella, ragazzi, è la linea della gamification”.
“Ora Sara… Sara! Oh, non ve l’ho presentata… Lei è la mia valente dottoranda, è con me da ben tre anni. Gira le slide, muoviti”. È un’esile ragazzina bionda, occhialuta, che finora si era segnalata in qualità di porta-acqua e clicca-tasti. Sorride esangue. “Ecco, torniamo alle valutazioni, gialle, salgono salgono, e alla fine il nostro Ivan ha raggiunto un bell’otto, tondo tondo. Questo cosa significa? Che è tempo finalmente di una scuola nuova!”.
Pausa pranzo. I corsisti scendono al primo piano, mescolati ai fidanzatini a breve scadenza e ad allegre famigliole con figli piuttosto in carne e si dirigono in una sorta di agorà di vetro, ai cui lati sono piazzate, in ordine di visibilità, Mcdonald’s, Burger King, KFC e un altro paio di catene minori. In alto, si legge, enorme, il claim del centro commerciale: Eat. Shop. Fun. Girellando fra i locali spuntano diverse poltrone automassaggianti, su cui troneggiano piccoli immigrati sudamericani pingui e beati, avvolti ad occhi chiusi dal velluto nero, mobile e ronzante. Tra una sigaretta e l’altra gli studenti commentano la lezione. Molti lamentano che “le lezioni sono davvero poco pratiche, del tutto inutili”; ma c’è chi è entusiasta della professoressa Cerasa: “certo che è competente!” o anche “lei sì che fa cose utili, finalmente qualcosa che si può applicare in classe!”.
L’unico criterio valido pare sia quali risvolti pratici può avere una lezione, e i corsi abilitanti, di qualsiasi Università, seguono un’impostazione tecnico-pratica. Lo scopo è “insegnare a insegnare”, impadronirsi di una tecnica che va riprodotta in classe, modelli standardizzati di cultura replicabili in serie. Si dà per incontrovertibile che la pedagogia sia una scienza autonoma e normativa, capace di stabilire leggi e metodi generali per educare: perché, in fondo, si considera la cultura una massa liscia e uniforme, senza striature. Certo, le metodologie didattiche offerte sono “diversificate” e arzigogolate, ma sono tanto malleabili proprio perché il contenuto è considerato sempre uguale, standard.
I corsi abilitanti sanciscono il passaggio a una scuola nuova, adeguata al modello neoliberista: non più luogo di educazione, intesa come il fine più alto, processo potenzialmente infinito cui l’uomo tende, ma laboratorio di addestramento “per competenze e abilità”, non del “sapere per sapere”, ma del “saper fare”, applicabile e funzionale. Da più di dieci anni ministri di qualsiasi colore non fanno che proclamare l’urgenza di stringere il nesso fra scuola e lavoro: dall’alternanza scuola/lavoro di Renzi fino a Valditara, che quotidianamente dichiara come “la scuola deve adeguarsi alle esigenze del “Mercato del Lavoro” (maiuscolo), come un dio a cui sacrificare, implacabile e severo (“tieni, Huitzilopochtli, eccoti una manciata di diplomati al classico e periti chimici: fanne quello che vuoi, mangiali, bruciali o fanne Human Resources Manager”). Resta da chiedersi quale competenza spendibile sul Mercato del Lavoro procuri la lettura di Mastro-don Gesualdo o Delitto e castigo: ammazzare vecchie usuraie? Morire in solitudine dopo anni di accumulo compulsivo? Per aderire a queste griglie capita che un insegnante tratti in classe Rosso Malpelo “perché c’erano tanti bulli, così ho sviluppato la competenza sociale nei miei alunni” (e la professoressa Cerasa compiaciuta, “si, l’ho letto, un romanzo molto efficace”). Qualcun altro, dubbioso, si chiede invece se La coscienza di Zeno non urti la sensibilità dei ragazzi: “come faccio a descrivere la figura dell’inetto, se lo sono anche i miei studenti?”.
Nel centro commerciale di Via Hayek i corsisti, storditi dall’aria condizionata e appesantiti dai Nuggets di pollo, rientrano con l’occhio appannato e spento e, per rianimare l’audience, la professoressa Cerasa decide di “elettrizzare la lezione! Dai!” e batte le mani festante. In un impeto di democrazia indice “la proficua condivisione delle esperienze, un grande momento di crescita professionale”. Porge sorridente il microfono ai corsisti, annuendo ritmicamente alle loro parole o scuotendo decisamente la testa, a seconda dell’umore dell’interlocutore. Col capetto reclinato e gli occhi stretti somiglia ai giornalisti che intervistano i parenti della vittima con l’aria fra il compassionevole e il molto commosso: “e così ha trovato lei il cadavere? Tanto sangue? Organi spiaccicati sul muro? La milza?”
“Vengo da lei che ha un tono basso basso basso” e si avvicina ad un tipo con la zeppola che parla come digerendo, assai faticosamente, che inizia a deplorare l’ingerenza dei genitori, di una madre che gli bloccava lo scrutinio perché pretendeva il 9 alla figlia invece di 8. Un altro, con tono saputo, ribatte che “le scuole devono fare i numeri, gli iscritti”, e che i genitori vanno accontentati, piaccia o no. “La colpa è dei dirigenti, che permettono queste cose!”, si intromette una voce squillante che poi lamenta le angherie della preside, i torti subiti e le ore non pagate. “Mah.. dipende da come ti poni tu… Io i piedi in testa non me li faccio mettere!”, replica una ragazza inspiegabilmente stizzita. Un’altra ancora gioca la carta del “vivi nascosto”: “lo so, il mondo della scuola è pieno di burocrazia e di ingiustizie”, ma – e stura la vena emotional – “quando chiudo quella porta, siamo soli, io e i ragazzi, ed è il mestiere più bello del mondo”. La Cerasa applaude, commossa come Maria De Filippi che ricongiunge madre e figlia da tempo lontane. Ma a quel punto la voce digerente si impunta e fa notare che anche se chiudi le finestre, fuori piove lo stesso.
La Cerasa muove il capino su e giù, incredula che il suo pubblico narcolettico si sia ridestato di botto: prova a mediare ecumenicamente, “ogni scuola è diversa, ogni dirigente fa a modo suo, e che, parliamoci chiaro, ci vuole anche un po’ di fortuna a trovare la scuola giusta”, e ride ancora, ma non trova eco. La stessa voce digerente si chiede per quale motivo la preside ora si chiami dirigente, e perché mai si adoperi questo lessico aziendale. “Ma si, in Italia ci impicchiamo con le parole, coi nomi”, smorza lesta la Cerasa, che, con fiuto antico, sente che la lezione prende una curva pericolosa, contestataria. Dall’ultima fila, una studentessa chiede candidamente aiuto alla professoressa, con tono contrito, da confessionale. “Vede, io… Sa, a volte mi trovo in disaccordo con le linee guida del Ministero… Insegno Lettere in un tecnico e… Non mi trovo d’accordo con ‘l’educazione all’imprenditorialità’, non è una cosa in cui credo”. Sgravata dalla colpa, è accolta dall’ampio sorriso di perdono della professoressa: “Ma cara! Un docente mica è un medico! Non c’è l’obiezione di coscienza! Se ci sono le Linee Guida ci sarà un perché!”. Poi aggiunge a bassa voce (timbro da confidenza con la mano a coppino): “e poi, dai… al tecnico… Quelli vogliono lavorare, fare i mestieri, lì la Letteratura è un optional! In quelle scuole è inevitabile… sono indirizzati verso il lavoro, verso l’imprenditorialità”. Con guizzo ferino s’è sovranamente impossessata del microfono, e torna a presidiare la sala ad ampie falcate come un animale territoriale: “Oggi siete agitatini, eh? Ma consentitemi una riflessione: stiamo esulando un pochino dal tema di oggi: Con queste… Cose… si rischia di scivolare in inutili dispute ideologiche… E sono cose che così mica si risolvono… Ognuno ha la sua idea, come i tifosi allo stadio… E per capire qual è la squadra migliore bisogna chiamare qualcun altro, superpartes: ecco, qualcuno di competente che decida oggettivamente! Capisco i dubbi, ma dobbiamo occuparci di competenze, perché solo con quelle possiamo costruire una scuola di qualità. E ora, basta per oggi! A domani, rilassatevi che vi vedo un po’ polemici!”.
Tutti si alzano di scatto, caricati a molla per un altro giro tra i negozi. Il sudamericano pingue è ancora accasciato sulla poltrona massaggiante, forse morto. Uscendo dal centro commerciale ci si sente persi: all’orizzonte solo grattacieli e uno stradone arrostito dall’afa. Da qui non si esce, e neanche dalla scuola delle competenze. Ma chi l’ha detto che costruire tre piani di centro commerciale sia una buona idea? E chi l’ha detto che costruire questa scuola sia giusto? Anche lo studente di un professionale che deve, per destino, fare l’elettricista è ideologia. Ideologia è anche intendere il pensiero come mera potenza di calcolo, e dunque l’insegnamento come performance e addestramento. E da qui nulla vieta di sostituire un professore con un automa (ci si liberebbe di stipendi, camicie sudate, gonne improbabili). “L’intelligenza artificiale non potrà mai sostituire la passione per i miei ragazzi, io posso incidere nella loro vita nel bene e nel male”, è la risposta standard miele&titanismo. Passione a parte (può anche nuocere), “la grande trasformazione” è già in atto: non della macchina che rimpiazza l’uomo, ma dell’insegnante che si fa simil-tiktoker, facilitatore, involucro artificializzato. “Prof, ma che studio a fare? Tanto c’è l’intelligenza artificiale che fa le cose al posto mio”, chiedono gli studenti sguaiati e sfacciatamente incuranti, ma, in fondo, si sente un retrogusto amaro, di sfiducia e spaesamento. Alla domanda “che vuoi fare da grande?”, sbottano: “i soldi!”. I più creativi vogliono reinventasi Youtubers che “prof, streammo su Mincecraft e fatturo 100k al mese!”. Neanche loro sanno se ci credono davvero o lo dicono per il meme, per inerzia. Perfino nell’avanzata Lombardia è rimasto poco di economia reale: gli alunni sono figli di immigrati e operai a basso costo, o, all’opposto, di dirigenti di qualche multinazionale: sanno che moriranno dove sono nati, poveri e ricchi, e già alle medie si crea una spaccatura di conoscenze e opportunità che non si rimargina più.
La scuola non verrà distrutta, e questa è la buona notizia, quella cattiva è che sta facendo la stessa fine della democrazia: “una post-scuola”, priva di senso, svuotata come un guscio dall’interno. “Prof, ma ‘sta roba a che serve?”: se lo studio (dal quale una componente di fatica, di costrizione e insofferenza è ineliminabile) non ha valore in sé, non è assunto come strumento trasformativo della propria vita, meritevole di essere perseguito e sostenuto, perché mai ci si stupisce che gli studenti siano disinteressati, annoiati o assenti? Effettivamente, praticamente dei vassalli di Carlo Magno o della caverna di Platone te ne fai poco.