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L’UNIVERSITÀ AFFONDA.

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In Italia è in corso un attacco all’università. L’obiettivo è creare istituti più poveri, nemici giurati del pensiero critico, in competizione secondo regole di mercato. I fronti più importanti: risorse, università telematiche, e precarizzazione.

Risorse

Un dato iniziale per iniziare a capirci qualcosa è che l’università italiana, a confronto con l’Europa, è da anni sotto finanziata: servirebbero 7-8 miliardi per pareggiare gli altri paesi europei. Gli investimenti per la ricerca pubblica sono cominciati a diminuire a partire dalla crisi finanziaria del 2008, fino allo 0,50% del PIL nel 2015, e tali si sono mantenuti fino al 2019. Con l’avvio del PNRR i finanziamenti alla ricerca hanno ricominciato a crescere fino all’attuale 0,75% circa, tetto mai raggiunto in Italia. Ma è un’illusione ottica: i finanziamenti PNRR hanno un carattere straordinario, non possono essere utilizzati per le spese correnti e per assunzioni stabili di personale e sono stati assegnati in modo molto disuguale tra le università. E’ tornata invece l’austerità: il disegno di legge 1240 del 2024, la riforma Bernini, prevede tagli consistenti al Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo): 513 milioni di euro in meno, -una riduzione di 35 milioni di euro per gli atenei siciliani, 12 milioni e mezzo in meno per l’università di Catania- a cui se ne aggiungono altri 250 per il mancato adeguamento degli stipendi. Non solo, la legge di Bilancio 2025 prevede non solo il blocco del turnover per il 75% – con restituzione all’erario del restante 25% – ma anche oltre 700 mln di ulteriori tagli nel prossimo triennio ai fondi del Ministero dell’Università e della Ricerca. Secondo stime della CGIL, nel 2026 il 60% delle università italiane pubbliche sarà in dissesto.

Università telematiche

Gli Atenei telematici italiani, che in soli nove anni (2014-2023) hanno più che quintuplicato il numero di iscrizioni, passando da 4.827 e 26.108 per Anno Accademico, e che intercettano l’11,5 % degli studenti italiani, sono undici, sono state istituite vent’anni fa e dal 14 maggio 2019 è consentito loro di acquisire la forma di società di capitali, assumendo quindi esplicitamente un obiettivo profit.

La più grande è Pegaso (90mila iscritti), seguita da E-Campus (47mila iscritti), Mercatorum (43mila iscritti); Cusano (22mila). Per oltre due decenni hanno operato -e talvolta operano- in un quadro normativo “speciale”, se non “anomalo” e molto più favorevole rispetto a quello delle università del sistema pubblico tradizionale. In particolare, la differenza più rilevante era stabilita dal numero di docenti necessario per attivare un Corso di laurea. Bastavano tre docenti di ruolo al posto dei sei necessari alle università tradizionali per le lauree triennali e due al posto di quattro per le magistrali. Inoltre diversi atenei telematici ad oggi permettono di fare esami di profitto on line, possibilità normativa venuta meno il 31 marzo 2022, con la fine dello stato di emergenza.

Il rapporto medio studenti-docente negli atenei a distanza è di 384,8 a 1, mentre nelle università tradizionali è di 28,5 a 1 (dato comunque al di sotto della media OCSE). Cosa ne consegue se non modelli didattici molto standardizzati, discutibili videolezioni in fruizione asincrona, piatte valutazioni da test a crocette? Che didattica è? 

Nel 2021 il decreto Messa prevedeva il riallineamento degli Atenei telematici ai criteri ed ai requisiti minimi di docenza per gli Atenei pubblici: 9 docenti per i Corsi Triennali; 6 docenti per le lauree Magistrali e 15 e 18 docenti per le magistrali a ciclo unico di 5 e 6 anni. Inoltre la numerosità massima degli studenti nei differenti corsi di laurea veniva resa uguale tra atenei in presenza e telematici. Tutti questi obiettivi dovevano essere raggiunti entro il 30 novembre 2024. Le sanzioni per chi non si fosse uniformato avrebbero previsto la chiusura dei Corsi di Laurea e il mancato accreditamento degli Atenei.

Il Decreto Bernini invece costituisce un indubbio arretramento: consente alle Università telematiche una numerosità degli studenti doppia per i singoli corsi di laurea rispetto alle Università tradizionali e il termine per il raggiungimento dei requisiti è stato posticipato e non di poco: almeno fino al 2028. Un vero e proprio decreto salva-telematiche, una politica che tutela i profitti degli Atenei telematici privati a scapito della qualità della loro offerta formativa e didattica.

Ma si può davvero parlare di ‘università’? La costituzione di atenei in forma di società di capitali, (ma in generale la dinamica di mercato che oramai sostiene la logica di funzionamento di tutto il sistema universitario) rende possibile armonizzare le esigenze e i caratteri dell’attività imprenditoriale svolta in un mercato concorrenziale con quelle di cura e salvaguardia dell’interesse generale rivestito dai servizi prodotti e offerti? [per usare le parole del Consiglio di Stato nel parere n° 1433 del 2019]. Giustamente ha scritto Montanari: Un ateneo for profit ha una natura diversa: non forma cittadini, ma vende a clienti; non ha come fine ultimo la ricerca e la cultura, ma il profitto dei padroni; deve stabilire una gerarchia tra l’interesse economico e la libertà accademica. L’immaterialità delle telematiche comporta l’assenza di comunità studentesche capaci di manifestazioni di dissenso, e l’erogazione del ‘pezzo di carta’ (sul quale non è scritto, come invece dovrebbe essere, se lo si è preso in una università reale, o in una virtuale) diventa di fatto l’unica missione, il profitto l’unico fine: per questo le ‘università’ virtuali sono la perfetta compagnia di un potere che odia il pensiero critico.

Precarizzazione

Solo contando le figure principali della ricerca universitaria (senza contare le altre figure precarie, come borsisti e docenti a contratto), la quota di precari nel totale del corpo accademico italiano, che nel 2010 era del 18,5%, nel 2024 è arrivata al 45,32%. Meno di quarto ha una tenure-track, cioè un percorso che può portare a una stabilizzazione come docente di ruolo.

La riforma varata dal governo Draghi nell’estate del 2022 è finalmente intervenuta a fare un minimo di pulizia tra le mille figure precarie proliferate nel post-Gelmini. In particolare, la riforma del 2022 aboliva le due principali figure precarie presenti negli atenei: l’assegno di ricerca, un monstrum giuridico senza pari in Europa, legalmente non assimilato al lavoro dipendente, con un minimo salariale fermo a 1.417 euro mensili dal 2010, senza orari, ferie, malattia, tredicesima e contributi se non alla gestione separata Inps; e il ricercatore a tempo determinato di tipo A, una figura che condivide con i professori le mansioni ma non la retribuzione né soprattutto la stabilità.

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Al posto dell’assegno di ricerca, la riforma del 2022 introduceva un «contratto di ricerca», un vero rapporto di lavoro subordinato, per quanto a tempo determinato. Un contratto con contributi, tredicesima, retribuzione demandata alla contrattazione collettiva e una durata minima non più annuale ma biennale. Insomma, non più assegno di ricerca ma un vero contratto di ricerca post-doc come quelli nel resto d’Europa, con una retribuzione più dignitosa pur mantenendo la precarietà dell’impiego.

Il cambio di governo ha poi prodotto successive proroghe degli assegni di ricerca, e la riforma Bernini ha significato uno spaventoso passo indietro: sono previste ben sei figure contrattuali precarie della ricerca. Il contratto di ricerca introdotto dalla riforma del 2022, ma inutilizzabile data l’indisponibilità del governo a regolarlo in sede di contrattazione collettiva. Un nuovo «contratto post-doc», che ha gli stessi requisiti di accesso, le stesse mansioni e lo stesso minimo salariale (che è il massimo, non essendo prevista contrattazione) del contratto di ricerca, ma una durata minore (la metà). Viene il sospetto allora che il suo scopo sia quello di limitare fortemente, se non proprio escludere, l’utilizzo del contratto di ricerca. Si prevedono poi contratti di collaborazione da parte di studenti che possono essere realizzati già durante il corso di laurea, e si introducono due tipologie di borse di assistente alla ricerca: una junior, destinata ai laureati magistrali, una senior per i dottori di ricerca: un nuovo assegno di ricerca? Viene poi introdotta la figura dell’adjunct professor che, pur sovrapponendosi di fatto alla figura del professore a contratto, potrà essere assunto senza concorso, ma su nomina del rettore e su proposta del Senato accademico. Un modo forse per assicurarsi uno stuolo di docenti precari a cui far svolgere compiti di didattica e ricerca senza dover passare per un concorso e senza offrire loro alcuna prospettiva, aprendo la strada alla differenziazione tra atenei dediti alla ricerca e alla didattica.La strada è chiara: concentrare i pochi fondi disponibili, ridurre l’università a un istituto portato avanti da persone qualificate, poco pagate e strutturalmente subalterne e ricattabili.

Allarmante è che i magnifici rettori, se si sono opposti compatti contro i tagli del 2024, hanno espresso quasi all’unanimità (l’unica voce contraria Tommaso Montanari) il loro sostegno alla riforma Bernini per due volte (16 gennaio, 20 febbraio, mentre 122 società scientifiche firmavano un appello per denunciare i «rischi di ridimensionamento della ricerca»). Lo segnala la stessa ministra: il Ddl sul precariato è stato scritto con il contributo di una parte importante del mondo universitario, un gruppo di lavoro guidato dall’ex rettore del Politecnico di Milano e presidente della Conferenza dei rettori Ferruccio Resta, riprendendo parte di un documento prodotto dalla stessa Crui. La controparte offerta dal governo: le risorse diminuiscono, ma se si livellano verso il basso diritti e salari di una parte della forza lavoro della ricerca universitaria, i tagli sul finanziamento degli atenei fanno meno male.

Fortunatamente il 20 Febbraio, la ministra ha annunciato la sospensione del decreto legge “alla luce delle proteste di sindacati e associazioni di dottorandi”. Ma sicuramente riproveranno, forti del ricatto-appoggio dei rettori, mentre Trusk attenta allo stato sociale degli stati europei.