Abbiamo intervistato Rossana Romano, referente alla dispersione scolastica presso l’Istituto Comprensivo “V. Brancati”. Siamo nella periferia sud-ovest di Catania, nei quartieri di Librino e San Giorgio (VI Circoscrizione). Le sue parole sono una testimonianza autentica di chi quotidianamente vive e si batte nelle periferie catanesi per contrastare la dispersione scolastica.
«Nei quartieri la povertà dilaga in maniera inesorabile e di conseguenza le prospettive di vita non sono delle migliori, la giornata inizia presto e ci si arrangia come si può: ciò fa gola alla criminalità che trova facili prede per rinnovare il suo organico. I più preziosi sono i ragazzi poiché, essendo minorenni, non corrono il rischio di pene severe. È la normalità vedere ragazzini che, tra un calcio al pallone e un giro in bici, si fermano a vendere sostanze stupefacenti o qualsivoglia tipo di merce illegale: conviene così e la scuola è solo un intralcio al business.
Inevitabilmente l’ambiente ne risente nella sua totalità, così, oltre alla criminalità normalizzata , diventa consuetudine lo schema valoriale del “più forte”, dove vige assoluto rispetto per il Capo e risulta totalmente assente quello per le donne, viste soltanto come mezzi per procreare».
Date tali premesse, in molti sono scoraggiati dall’insegnare qui. Entriamo nel vivo del lavoro:
La giornata lavorativa della prof. Romano non finisce al suono della campanella, perché in un contesto così delicato è necessario essere sempre reperibili.
«È un lavoro che non conosce ferie, prima di essere insegnati è necessario essere degli educatori che promuovono sani modelli affinché si possa contrastare quello della strada. Non solo, bisogna mettere tutti a proprio agio, genitori e ragazzi: ai primi far capire che si è tutti dalla stessa parte e la priorità resta sempre il benessere dei figli; mentre con gli altri instaurare un rapporto di fiducia reciproca per convincerli che la strada giusta è quella lontana dalla strada.
Il dialogo con i genitori è spesso violento oppure discontinuo e latente, dunque risulta necessario un lavoro sinergico tra scuola, psicologi e assistenti sociali in modo tale da garantire la tutela dei minori: le due figure ricorrono in soccorso alla scuola nei casi più gravi di famiglie disfunzionali, dove abusi, droga e violenze sono all’ordine del giorno. Peraltro sono misure recenti: fino a poco tempo fa intorno alla scuola non orbitavano queste figure assistenziali».
La professoressa ci tiene a ribadire che la dispersione è soltanto la superficie del disagio che si nasconde dentro il quartiere e quindi le chiedo di approfondire l’identikit dei suoi protagonisti.
«Sono ragazzi molto svegli, messi in strada sin dalla tenera età, hanno imparato a cavarsela senza chiedere aiuto. Per loro il quartiere è vanto ed onta: vanto perchè si sentono una comunità, condividono un sistema valoriale distorto (patriarcato, omofobia, razzismo), esaltano e spettacolarizzano il crimine che viene commesso. Onta perchè si sentono ghettizzati, venendo relegati soltanto a quell’ambiente e vedono il centro di Catania come una meta esterna che si è dimenticata di loro o fa finta di non vederli. Un rapporto così tormentato con la propria terra genera rabbia, rabbia che sfocia in degli atti indicibili, così la scuola resta l’unico presidio in grado di mantenere l’immagine del luogo sicuro. Tra le lezioni più importanti ci sono quelle di educazione civica, dove si cerca di sensibilizzare gli studenti verso temi come la parità di genere, il rispetto dell’ambiente e la cura del prossimo.
La scuola, attraverso dei laboratori pomeridiani, crea i luoghi di aggregazione per soccombere alla mancanza di punti di ritrovo. Nonostante tutti gli sforzi, tanti cedono alle lusinghe della criminalità».
Non per “vocazione”, o per una qualche ragione antropologica, tiene a precisare la professoressa, quanto per necessità: «la povertà, non solo economica, spinge questi soggetti a fare scelte per poter vivere alla giornata». La referente alla dispersione scolastica racconta la storia di due fratellini di sette e nove anni che, da un giorno all’altro, hanno smesso di andare a scuola per vendere botti illegali.
«Si sono costruiti un grande espositore, hanno trovato una bella posizione sul ciglio della strada e si sono divisi i compiti: il piccolo imbustava e il grande teneva i conti. È vero, molti cedono alle tentazioni della malavita, ma altrettanti riescono ad ottenere un futuro migliore. C’è chi ha continuato a studiare e si è laureato, ma il successo sta anche nei lavori più semplici come il panettiere o l’estetista perché è la legalità che nobilita il lavoro».