Disagio giovanile, Salute psicologica

Generazione precaria: l’illusione di un futuro che non arriva mai

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Quando mi chiedono cosa farò dopo la laurea, rispondo “E io che ne so”.

E mi piace sapere che non sono l’unica, che tutti i miei coetanei vivono di costanti “non lo so”, di un sottofondo costante di incertezza sul futuro e sulla vita, su chi si è e su come vivere la propria identità nel mondo.

Vivo — e viviamo — in un ambiente che stimola una costante crescita;, tuttavia, è apparente, perché accetta solo quello che conviene, solo quello che è utile.

Viviamo in uno dei paesi in cui il tasso di occupazione giovanile è il più basso in Europa: secondo dati recenti, nel 2023 il tasso di disoccupazione giovanile era del 13,4%, con un preoccupante 22,7% nella fascia d’età 15–24 anni .

In questo clima di disoccupazione e tantei aspirazioni, il problema dei giovani è proprio questo: provare la passione per tutto e vivere limitati in un mondo che ha poco.

Perché ha poco, nonostante le immense risorse a nostra disposizione?

La pochezza risiede proprio nell’assenza di un futuro, nell’assenza di una certezza che gli sforzi compiuti abbiano un senso. Il mondo ruota a una velocità impressionante e noi non riusciamo a seguirlo, non riusciamo a seguire le mille richieste che ci vengono fatte da un sistema che non ci ama.

Quando ci viene detto che l’arte e la letteratura sono inutili, quando ci viene detto che conta solo sistemarsi e trovare un posto nella grande piramide economica, come possiamo sentirci al sicuro?

Perché inutile? Perché l’italiano lo sappiamo tutti, perché ormai con la laurea umanistica non si produce niente, perché ormai contano soltanto le materie scientifiche e che non si creano contenuti studiando letteratura.

L’assurdità delle sue affermazioni riflette quello che è un mindset comune nella società odierna, che spinge i più a seguire un percorso scientifico, a discapito di una formazione umanistica, reputata quasi inutile e per inetti. Ironicamente aggiungo che le aziende cercano creatività e pensiero critiche, skills che si acquisiscono leggendo e pensando, ma le richieste di lavoro privilegiano maggiormente i titoli tecnici.

Mi viene da pensare che forse è per questo che non ci sentiamo di avere un vero e proprio futuro, perché tutto quello che rientra nelle passioni, nell’espressione personale viene completamente denigrato e distrutto per amore di una tanto potenziale ricchezza. Il problema è proprio questo:, una società che spinge a perseguire un’idea di ricchezza apparente e che ne deturpa gli aspetti più umani. Viviamo in un paese (e mondo) che non sostiene i giovani e non vuole sostenerli, nonostante siano la base della società futura. Viviamo in un paese che ha annullato la sua fonte primaria di esistenza, come l’arte e la letteratura,  e che manda avanti un ciclo di precarietà mentale ed economica. Un paese che non assicura un futuro agli stessi fautori di esso e che preferisce assecondare i più tardi per il prestigio politico. Questo è lo stesso paese che nel 2023 ha destinato solo il 4% del PIL alla cultura (fonte: MiC) e dove il 38% dei laureati in lettere è disoccupato dopo un anno dalla laurea (fonte: Almalaurea). Non sorprende dunque il nostro malcontento e la nostra rabbia, poiché noi giovani non ci sentiamo né compresi né rappresentati. Questa incertezza viene solo ripresa con la frase “Sai quanti sacrifici ho fatto io!”, come se il paragone tra la generazione del boom economico e la nostra fosse sensato. Come se il mondo vivesse in uno stato inalterato e tutto si potesse ottenere con il mero sforzo e sacrificio. Ignorano che †in, in realtà, siamo costretti a scegliere non in base a ciò che amiamo ma a ciò che, forse, ci darà uno stipendio.

Ci dicono che è colpa nostra se non troviamo lavoro, che non ci impegniamo abbastanza, mentre il mercato del lavoro richiede un’ esperienza eccessiva a chi non ha mai avuto opportunità di lavorare e offre stipendi ridicoli a chi ha passato la vita a formarsi. Le aziende ci guardano con sufficienza, le università ci abbandonano al nostro destino, e alla fine ci ritroviamo in bilico tra la disoccupazione e il precariato. I numeri dicono che siamo una delle generazioni più penalizzate, ma la società preferisce ripeterci che dovremmo “adattarci”, che “i tempi sono sempre stati difficili”,  che tutti si sono “spaccati la schiena”, come se l’assenza di prospettive fosse una prova di carattere e non il sintomo di un sistema ormai fallimentare. Intanto, chi può se ne va, e chi resta deve convivere con la frustrazione di aver investito tutto in un futuro che potrebbe non esistere.