Povertà educativa

Povertà educativa, una questione non più rinviabile per la città.

Intervista alla giudice Emma Seminara.
screenshot-2025-05-20-164631

Preziosa intervista a Emma Seminara, giudice presso il Tribunale per i Minorenni. Preziosa sempre, ma oggi soprattutto, per noi ancora increduli e attoniti per l’assurda e inquietante strage di Monreale, le risse in centro a Catania, la sparatoria a Noto.


 Che idea si è fatta sulla “devianza” minorile?  Trova appropriato il termine? 

Non è un termine che uso volentieri perché mette un confine rigido tra ciò che è accettato in una società e ciò che vi si discosta. È un termine tranciante, assoluto, che fa perdere di vista le peculiarità dei fatti e delle persone che ne fanno parte.

Sino ad un recente passato era considerata “deviante” l’omosessualità che certamente non merita alcuna stigmatizzazione. Certi comportamenti possono essere di significato neutrale fino a che la società li marchia per difendersi dalle diversità e poter meglio controllare i cittadini se questi sono un gruppo omogeneo, allineato e compatto.   

Rifuggo da etichette o timbri analoghi a quello applicato con la parola ‘deviante’ perché come giudice minorile cerco di capire cosa c’è dietro il reato, mettendo al centro la persona del ragazzo, le sue caratteristiche, i suoi legami, le sue motivazioni e aspirazioni. 

Con l’ausilio degli operatori, psicologi e funzionari del Centro di Prima Accoglienza e del Servizio Sociale Minorile Ministeriale USSM, l’adolescente viene ascoltato sin dal momento dell’arresto, vengono sentiti i genitori, si elaborano progetti alternativi al carcere e si cerca di comprendere o ricostruire il vissuto e la direzione che quel percorso di costruzione dell’identità ha preso, “urtando” nel reato. 

A volte il reato e l’arresto paradossalmente integrano tappe evolutive: quel ragazzo vuole fare attrito con la realtà ed essere finalmente guardato come nella famiglia d’origine per vari motivi non è stato mai e vuole essere apprezzato dall’unico gruppo che lo cerca (e lo utilizza)  dimostrando la sua abilità a scassare, a rubare, a guidare pericolosamente ecc.    

Perciò quando un ragazzo, specie nella fase esecutiva, successiva alla definitività della condanna, mi dice “non dovevo comportarmi così, è successo perchè io faccio schifo”, gli rispondo che la sua azione ha fatto schifo, specie se ha fatto soffrire una persona già vulnerabile (esempio: le rapine ad anziani), ma la sua persona no: la sua persona è in crescita, è plastica, capace di trasformarsi e tirar fuori risorse e capacità, che spesso sono ancora da scoprire e possibilmente stanno emergendo proprio in carcere o nelle comunità grazie a stimoli costruttivi mai sperimentati. Lui è ancora in grado di essere luminoso, competente, apprezzato per cose nuove e utili per sé e per gli altri. 

Il disagio giovanile è una questione non più rinviabile? 

 Credo che il disagio giovanile non possa essere scorporato dal disagio e dalla precarietà che fa barcollare la quasi totalità della società attuale.   

Il disagio dei ragazzi è strettamente collegato a quello degli adulti che non riescono ad accompagnarli e a sostenerli nella crescita perché, ad esempio, sono preda della stesse smanie, preoccupazioni e ansie dei figli: guardare continuamente il telefono, apparire sui social come belli, ricchi, abbronzati e vincenti, sempre in vacanza o nell’“happy hour” dell’aperitivo, possibilmente attorniati da beni di lusso. 

La questione non più rinviabile è quella della “povertà educativa”.

La povertà educativa è quella morale: povertà di stimoli, povertà di immaginazione, povertà di progetti e di sogni. 

E’ collegata allo svuotamento di senso dell’impegno scolastico e alla trasmissione da parte dei genitori o di altri adulti dell’importanza dell’apparire, non importa se a discapito dell’essere (essere competenti, saper davvero fare qualcosa, faticare per essere meritevoli o per acquistare l’oggetto desiderato) e pure dell’avere, perché non c’è bisogno di possedere qualcosa, basta esibirla nelle foto sui social.

 Povertà educativa è quella di un genitore tranquillizzato dalla presenza del figlio a casa, anche se è chiuso da solo in un’altra stanza davanti al cellulare o al computer. 

Ha esperienza di rischi e danni psicologici, sociali e/o cognitivi a carico di ragazzi e ragazze derivati dai social o dalle tecnologie di cui ci serviamo? 

  Certamente. Sotto gli occhi di tutti, e non solo dei giudici minorili, ma ancor più degli insegnanti disperati e dei genitori che non cedono alle pressioni dei figli che a otto anni pretendono già il cellulare. Lo dimostrano le esperienze di difficoltà di concentrazione, calo di memoria, azzeramento dell’immaginazione e difficoltà nell’attendere una risposta che su internet è immediata e toglie la fatica del pensare per tappe logiche e affrontare i tempi di decantazione e maturazione delle idee.   

 Da giudice minorile ho conosciuto adolescenti che si ritirano nella loro stanza, abbandonando le lezioni scolastiche, facendosi portare i pasti in camera e restando collegati anche dieci ore al giorno giocando al computer con coetanei di altre città d’Italia che non incontreranno mai in carne e ossa: amici virtuali in una vita isolata che per andare avanti ha bisogno solo del computer o del telefonino. Si fa  a meno del sole, delle passeggiate, dello sport, delle chiacchiere e panini con gli amici, dei giornali e telegiornali e di una qualsiasi formazione di base che dovrebbe servire per acquisire competenze per lavorare, relazionarsi meglio o semplicemente crescere. 

 Ho incontrato ragazze che si erano affidate ad invisibili tutori che dalla rete incentivano atti autolesionistici con la promessa fallace di rafforzare la personalità ed entrare in gruppi speciali (trappola “blue whale challenge” scoperta in Russia e contrastata dappertutto, Italia inclusa, dal 2016). Oppure -e sono tante- ragazze che hanno mandato al fidanzato su whatsapp foto del loro corpo nudo che poi, a flirt finito, vengono messe in circolo e causano etichettatura offensiva, bullismo, persino tentativi di suicidio e in ogni caso una grande sofferenza. 

 I danni si aggravano se la ragazza è extracomunitaria e il genitore marocchino o tunisino viene a scoprire da connazionali che la figlia non solo non copre la testa col velo (che finge di mantenere davanti al padre che l’accompagna a scuola) ma che sui social espone il proprio corpo. 

Il procedimento civile in questi casi nasce dalla necessità di mettere in protezione (collocamento in struttura protetta di tipo comunitario e con autorizzazione ad incontri genitori – figlia alla presenza di mediatore culturale) l’adolescente picchiata dal padre che sente la vergogna per il suo nucleo familiare e per il gruppo di connazionali, essendo la figlia “deviante” – ritorniamo alla prima domand, all’inappropriatezza del termine se si dimentica della sua relatività – rispetto all’etica musulmana.  

 Esperienze di dipendenze, squalifiche sociali (con un impatto enorme nella fase adolescenziale) e vortici autodistruttivi collegati alle immagini sui social o alle etichettature lette da centinaia di coetanei, che tolgono salute, voglia di vivere, apertura mentale,  implicano la necessità di tutela e di sostegno psicologico da parte del Tribunale Minorile nei procedimenti civili, in cui si cerca di aiutare il ragazzo e responsabilizzare i genitori così spesso disattenti. 

Cosa pensa del decreto Caivano e dell’inasprimento dei presupposti della custodia cautelare in carcere minorile ? 

Apprezzo il decreto Caivano nella parte in cui contrasta l’evasione scolastica, spesso punta dell’iceberg di un disagio più grande che si aggrava con l’entrata dei ragazzi semianalfabeti in organizzazioni criminali o con convivenze more uxorio e maternità precoci di ragazze che disertano le lezioni scolastiche e diventano madri-bambine di altri bambini all’interno della stessa bolla di deprivazione. 

Penso anche, con riferimento ad altre norme attuali, che dare un peso preminente alla sicurezza non è la soluzione, perché  tra i valori di una società civile la sicurezza dovrebbe realizzarsi da sé dopo aver attuato i valori più importanti della giustizia e della pace. 

Insomma la funzione general-preventiva della pena non deve prevalere sulla funzione special-preventiva, soprattutto quando autore del reato è un adolescente, ossia portatore di una personalità in formazione, ancora da educare (nel senso di guidare e accompagnare). 

La Corte Costituzionale ha più volte ribadito (anche nel dicembre 2019, in sede di revisione dell’ordinamento penitenziario minorile attuata col decreto legislativo del 2018) la necessità di abolire ogni automatismo con riferimento ai procedimenti che riguardano minori, proprio allo scopo di adattare la sanzione alla personalità e alla situazione di vita del ragazzo che ha commesso il reato. 

I poteri dello Stato dovrebbero mantenerlo come “Stato sociale”, in attuazione dell’art. 3 della Costituzione. Lo Stato italiano si è posto l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli per un’uguaglianza sostanziale che non discrimini ricchi e poveri nelle opportunità di accesso alle risorse di studio. Deve quindi puntare sulla prevenzione, ossia sulla riduzione della povertà educativa che porta certamente alla diminuzione della criminalità.      

Ritiene che il carcere minorile sia criminogeno o possa rieducare  il ragazzo autore di reati e favorirne il reinserimento sociale dopo il “ri – atterraggio” nella vita libera?  

Il carcere minorile – che non è mai stato sovraffollato, a differenza dei carceri per adulti, ed è purtroppo oggi destinato a diventarlo con i recenti decreti sicurezza –  è in più parti d’Italia un’Istituzione valida che non coincide con le storie della serie “Mare fuori” e in quasi tutte le sedi non è ricettacolo degli sfoghi violenti e ingiusti visti con sconcerto nei telegiornali con riferimento al carcere minorile di Milano nei mesi in cui il potere repressivo dei poliziotti di quell’Istituto era sbilanciato rispetto al potere di cura degli educatori.  

 Ho ascoltato e seguito ragazzi che in carcere hanno scoperto la passione per una materia di studio e si sono diplomati o anche laureati; oppure hanno scoperto il proprio talento per la cucina o altro, coltivandolo dopo la scarcerazione, ottenendo un guadagno (stavolta onesto) e una soddisfazione che non avrebbero immaginato.  

Scatta in tanti casi la motivazione ad allontanarsi dal quartiere di provenienza o dalla famiglia allargata che li ha utilizzati per compiere reati considerandoli “legna da bruciare” e da sostituire, dopo il loro arresto, con altra “legna” disponibile (a fare da pusher, a rubare un certo tipo di macchine, a nascondere pistole, a incendiare o gambizzare per ritorsioni a sgarri)       

Perciò penso che il carcere minorile non vada abolito perchè in certi casi è la misura più adatta, anche temporaneamente, a dare un limite che il ragazzo autore di più rapine o altri reati seriali (oppure di omicidio o di violenze sessuali) non ha mai percepito. Per l’assenza di una famiglia attenta,  di messaggi che lo incentivino a impegnarsi, in uno scenario, ormai diffusissimo, di …povertà educativa (torniamo sempre al punto!)    

Certamente il carcere minorile va riservato ai casi più estremi, quando il collocamento in comunità si è rivelato già inefficace e il processo va avanti senza la praticabilità della messa alla prova, poiché la personalità del ragazzo sembra già in fase di strutturazione per i troppi anni di appartenenza alla criminalità organizzata che gli ha fatto introiettare un codice di comportamenti e “valori” non compatibile col vivere sereno e libero di chi sta fuori da quel gruppo. 

Paradossalmente, certi istituti penitenziari minorili con operatori appassionati e fiduciosi nelle possibilità di cambiamento degli adolescenti dai 14 ai 25 anni  (è un dato scientifico che al compimento dei venticinque anni si completa lo sviluppo della corteccia pre-frontale, sede della capacità di discernimento o senso di responsabilità; insomma ai 25 anni finisce l’adolescenza e coerentemente finisce anche la possibilità di continuare a dimorare presso un carcere minorile) realizzano questo paradosso: il carcere che è un luogo di separazione o esclusione diventa per ragazzi ristretti (esclusi dalla società e dai pari che si muovono liberamente) un luogo di inclusione che fa loro sperimentare occasioni di formazione, conoscenza, divertimento, mai sperimentate prima dell’arresto e li prepara alla vita libera dandogli uno sguardo diverso su se stessi e sul mondo, un po’ più aperto, un po’ più curioso e meno violento. 

Gli operatori forniscono infatti occasioni intramurarie di studio e lavoro, adatte alle inclinazioni e alle capacità di ogni singolo ragazzo ristretto, e favoriscono il contatto dei ragazzi con l’esterno attraverso contatti con coetanei liberi che partecipano ad incontri sportivi o con volontari che stimolano alla riflessione (incontri con vittime di mafia, ecc) e alla creatività (laboratori di teatro, pittura,  ecc), per aiutare i minori a distanziarsi criticamente dall’operato violento. Scoprire che ci si può divertire senza danneggiare niente e nessuno e si può vivere senza ricorrere al crimine, sfruttando le competenze acquisite. Scoprire quanto sia bella e grande la nostra isola che per tanti di loro, mai usciti dal quartiere – ghetto, è solo cemento e cartelloni pubblicitari e invece comprende il mare e l’Etna e bellissimi paesaggi e sport mai nemmeno conosciuti, e resi finalmente accessibili con i permessi-premio guidati dagli operatori per giornate dentro la natura. Persino corsi di vela che per i più capaci diventano occasioni di regate e viaggi anche fuori dalla Sicilia, entro orizzonti più ampi di conoscenza e di progetti.